RACCONTI DEL SABATO SERA

Felice Filippini - Racconti del sabato sera

Racconti del sabato sera, Ghilda del Libro, Lugano 1947

L'Archivio Felice Filippini propone:

Racconti del sabato sera - 16 racconti di Felice Filippini, pubblicati a cadenza settimanale a partire da sabato 01 febbraio 2014 fino a sabato 18 ottobre 2014.

 

  • RACCONTO DEL 1938 - Prima parte

     

    Giovinotto fantasioso, egli è per tutti nient'altro che un aspetto delle cose. E nessun calore negli sguardi degli altri... Ma egli è dall'altra parte degli sguardi: e poi proprio ora sente che che il destino ha le sue battute d'aspetto. Scenario: tempo di pioggia, cemento bagnato, folate di vento lascivo striato di caligine. Trasloco di mobile su autocarri, Gran premio motociclistico, viali d'alberi che le auto traversano rispecchiando ramaglie - pioggia.

    È nato in un paese di portici e fontane di sasso, in una casa piena di enormi chiodi, carrettini vestiti e bambole di una sorella morta. Nell'altra casa hanno abbandonato un bambino scemo su una lobbia: l'innocente non sa, non capisce. Lo annega l'azzurro che trabocca dai tetti. Poi salta su a cantar messa - interi pomeriggi canta messa con disperazione.

    Si vive sempre in una stanza immensa a pianterra, pavimento di pietra e scala di legno intonacato che mena di sopra. Soltanto qualche finestrella sulla penombra popolata di vecchie mormoranti, di amici carradori, di giganti sospirosi che si strappan denti l'un l'altro con la tenaglia.

    Lui, bambino, indossa brachette di cuoio, così può sdraiarsi per terra o fare il balordo nel fango o andare a cavallo dei porcelli. Sta sempre solo: a tre anni un cane lo morde - sangue tra le mani, sui sassi, e il cielo s'inrosa; più tardi lo scottano con la pappa bollente (ricci di pelle vengon via dalla gamba, che lui arrotola sognando tra le dita). Verso quel tempo cominciano a picchiarlo, perché s'arrabbiano di vederselo sempre così lontano; allegro, poi, ride da matto ed è fastidioso come un mal di ventre. Il padre porta dall'Italia il primo libro; così la sera il bambino s'accuccia in un angolo dello stanzone mentre il babbo apre l'astuccio nero e frega l'archetto sulla pece. Il padre suona il violino e il libro è fosco e pieno di cornacchie e di streghe che ballano di sabato sotto un traforo di rami gelati... Il babbo suona. È l'Uccello Roc della fiaba che ha quella voce di violino? o è la paura. "Paese dei campanelli", "Bajadera"... Le canzoni vanno a lui, dalla parte del buio, entrano nel libro di tela rossa sul quale hanno stampato un capro.

    Ma gli strappano i libri di mano. "Va un po' a giocare, bacucco".

    Giocare - oh no: avviene sempre che i compagni si scaldano soltanto a vederlo. Appena giunge sulla piazza il suo riflesso in piccolo negli occhi dei compagni li arde di collera.

    "Picchialo" dicono. "Dai, Marzio, picchialo". È il più bulo, Marzio. Come sono duri i suoi pugni sotto le orecchie, i suoi calci negli stinchi.

    Allora il bambino va dalla nonna, o nell'orto, o lungo il riale tra sassi grandi come case e cespugli immensi di rovi. Dentro fa un buio muscato e ronzante che s'accende di baleni d'oro. Il bambino vi striscia evitando le spine, e si sdraia in un molle che è erbetta umida, legno marcio e ossa di defunti animali selvatici; passano drappelli di mosconi, lasciandosi dietro un greve, quasi toccabile arpeggio. Che belli gli odori vegetali! Lui ama i boschi e i campi con le piante. Ha sognato di costruire, in tempo di vacanza, una piccola casa di legno, apposta per lui, su un ciglione tra due vigne che conosce. È una sponda di ruscello, assalita da un tumulto di altissimi larici. Quattro tronchi di larice son gli angoli della casa; a mezzo d'assicelle inchiodate una sopra l'altra si potrebbero fare le pareti; si ma... e il tetto? Oh una tela, una stoffa tesa su un telaio semplice, così d'aver sott'occhio il sole tutto il giorno; un sole opaco come quando s'osserva passare tra nebbie.

    Si nutrirà... Oh, sa come. A tavola osserva gli altri che mangiano, il lesso freddo della sera, il vino americano nei pesanti bicchieri che meravigliano quel che c'è dall'altra parte. Se fuggisse d'improvviso come un diavolo, col tavolo sulle spalle? (Si vede già nella casa campestre a tagliar via fettine di pane sottili come sospiri, poi fettine di lesso. Pane e vino da ultimo, fin le briciole di mollica sulla tovaglia al posto del padre... Mattata da farsi, oggi o domani).

    In giugno, finita la scuola, contava di cominciare il lavoro; ma in aprile non ci pensava più. Aveva in mente il veicolo a motore.

    L'avrebbe fabbricato sul banco da falegname che papà aveva installato in una specie di bassa cantina. Lui sapeva un po' piallare e limare... Cominciò una mattina di buon'ora che c'era gran trambusto d'uccelli e le fronde oscillano sotto un'aria leggera. La madre avrebbe portato dalla Cooperativa quel pane che ricordava il sabato, pane a righe che canta sotto i denti; e questo è incredibile quanto faccia lieto, benchè vagamente febbrile, il lavoro. Prima fece un tavolato di pochi palmi inchiodando traversini sopra due assi; poi bisognò pensare alle ruote. Provò a ritagliare da un asse molto larga: ma fu un disastro, poichè si slabbravano nel senso delle fibre. Prese allora quattro di quei cerchi di ferro che servono a tener insieme le botti, e li inchiodò all'esterno delle ruote (faceva saltar lontano, con un colpo elastico del medio lasciato sfuggire da sotto il pollice, i lombrichi e le lumachette incrostate a quelle cose raccolte da terra). Ma i chiodi erano troppo deboli: usò allora viti salde che frugavano nel legno profondo. In due giorni di tentativi riuscì ad applicare le ruote al tavolato: ma non c'era ancora il motore...

    Aveva pensato di motorizzare il carretto con una dozzina di sveglie - sapeva dove pescarle. Ma prima volle provare la resistenza di quella carrozza ingenua. La trascinò fin sul sommo di una china, si sedette sul carro, con violente pedate al terreno spinse per un paio di metri: teneva, teneva! Rotolava dolce e solido, il bambino cantava... Poi s'avviò a una corsa pazza. Con terrore pensò che aveva dimenticato timone e freni... Si buttò fuori, rotolò nella polvere, alzò gli occhi senza pensare al fuoco dei ginocchi e dei palmi: e vide il veicolo scoppiare, giù in fondo, contro un muro. Tutto da ricominciare. Ma a sera si sentì il padre imprecare orribilmente, levando al cielo bieche minacce: i ferri erano spuntati rotti o perduti: le assi pagate carne salata non c'eran più.

    Picchiarono il bambino per vari minuti, in silenzio, con convinzione. E lui non voleva piangere, li, sotto le mani offensive dei grandi, nella piazzetta dove non passava mai nessuno. Riuscì a scappare; dall'ombra azzurra dei portici puzzanti di muffa giunse in riva all'acqua, dove il torrente aveva formato un letto seminato di pietre gialle e nere. Seduto su uno spiazzo di sabbia ascoltava le onde battere a riva come un polso. Passarono dei tronchi di legno marcio. E una scatola di sardine. Poi giunse un gatto gonfio, dall'irto pelame, zampe all'aria. Tra lagrime inghiottite che avevan gusto di linfa, appariva al fanciullo un cielo elevato dove nuvole e nuvole, entrando l'una nell'altra, davan piani al sereno. Il gatto passa lento, le nuvole vanno lente - acqua, acqua all'ingiro... le zampe...

    Ma su, su in piedi - balza in piedi bambino ardente! C'è un'idea nuova. La barca.

    Rubò una pala e si mise ad allargare il fondo del fiume in un punto propizio, per scavare un pozzo navigabile. Scappava di casa ogni mattina, con la sua pala che dava allegramente nei muri levando scintille; e, nell'acqua fino al ginocchio, frugava il fondo sabbioso per scovare i ciottoli e gettarli lontano per il greto. Così per giorni e giorni.

    Ma a casa cominciarono a guardarlo di sbieco.

    Chiese la madre "Di' un po': dove vai tutto il giorno?"

    "A spasso"...

    E la madre "Ora non andrai più. Tuo padre ha vangato l'orto e c'è un fottio di sassi che bisogna portar via. Fila bambino".

    Andò nell'orto, col rammarico dentro che gli allentava le gambe. Ma scavalcò d'un balzo la siepe di fondo e corse al riale. Che bell'acqua c'era! Tutta accesa di creste dorate andava al basso con tanta calma, dimenticandosi dietro, tra i macigni, certi vetri d'acqua d'un mistero pieno di cielo. Il bambino si rimise all'opera con gesti sperimentali. Costruì una diga: e l'acqua salì subito di livello, filando piatta fino al riparo che lui andava stoppando di zolle. (Una volta, scivolato per poco, ebbe giusto il tempo di vedersi a fil d'occhio la tenda spiegata del pel dell'acqua: tutto un traboccare di onde). Il bel pozzo ovale era profondo un mezzo metro, lungo più di venti passi e largo mica male; c'era posto per navigare.

    Il bambino risalì all'orto con grande ansia. Durante le ore meridiane di lavoro s'era risucchiate in bocca le parole "Sassi portar via. Sassi prendere, alzare, portar via". E guardava per un attimo qualche spuma di saliva che, sfuggita dalla sua aperta bocca di fatica, si stellava sul torrente; e quello fulmineo l'avviava verso il cammino del mare. Ma ora il rammarico se n'era andato in tanta paura. ↑   

  • RACCONTO DEL 1938 - Seconda parte

     

    Era sera, si levavano venticelli; nel cielo inoltravano lente nuvole che da una parte avevano il sole morente, dall'altra l'ombra. Il bambino temeva di buscarle; così, fermatosi accanto alla recente vangatura del padre, lavorò accanito. Uccelli volavano fino a sfiorare la terra, segno che era prossima la pioggia. Tra lui e la casa c'era già qualche velo di notte; e negli uccelli volanti, nella terra che puzzava di fumo, nella luce che vedeva in cucina, nel silenzio di questo teatro serale egli sentiva maturare la burrasca. Lavorava e tremava: no, non sarebbe entrato in casa!

    Ma il babbo venne fuori silenzioso dal pesante tramonto, e pel braccio lo trascinò dentro. Gli additano un piatto di porri, gli accennano di tagliare un po' di pane; ma com'è triste la cena quando tutti tacciono! Lui li vede, i taciturni: eccole, quelle facce più grandi del solito; hanno rughe, e labbra sporgenti, e palpebre lente sugli occhi; e occhi che non lo guardano!

    Il padre si decide a leggere il giornale faticando a trovare la posa giusta sul pancone (lui se mette una gamba sopra l'altra ci viene il crampo). Leggi leggi, padre! Nel tuo panciotto si sente battere l'orologio. O che sia il tuo cuore, invece? Rinchiuditi pure, fatti piccolo, fatti vittima delle cose; appoggia quel mento aggressivo sul petto - che non si veda che la tua bontà: la bestiale, prepotente e remota bontà di quel tuo occhio bovino, di quella tua orecchia ricamata dai buchi complessi.

    Su, diciamo qualcosa a quest'uomo buono che patisce. "Quante rughe che hai, paparino!"

    Risponde: "Sono tutti i dispiaceri che tu mi dai!"

    "Quali dispiaceri?" interroga il bimbo "di' quali?"

    Si sente la mamma - come se fosse la prima volta che parlasse da che è al mondo: "Hai il coraggio di chiedere quali dispiaceri?"

    La bontà del babbo trema, si scolora: ma finisce col vincere. "Io gli auguro soltanto" dice alla madre parlando del bambino "che da grande lui non abbia a pagare tutto il male che ci fa. Sarebbe troppa sventura! Oh no, che venga perdonato, dopo tutto!"

    Mentre la madre ordina al bambino di scappar su per le scale, un grosso pianto lagrimoso dilegua la bontà paterna. Non piangere povero uomo spiacente! Guarda giù: hai un buco nella calza, da cui sporge un dito! E in più c'è questo figliolo, che sarà la tua morte...

    E allora sul bambino che esce sbigottito cala una mano subitanea che lo getta contro il muro. Mamma, vieni - fa qualcosa mammina! Che almeno la tua faccia triste mi assista in questo momento! Abbraccia il tuo uomo mammina, tienilo stringilo: così lo impedirai di picchiare il tuo piccolo figlio indifeso!

    Ma l'uomo alza ancora la stessa mano: e ciò che fa è troppo, oh Dio, è assolutamente troppo, non si può nemmeno raccontare. Fugge la madre dallo stanzone, e fuori dai vetri la sua faccia simile a un cuore pallido oscilla e spalanca la bocca e mostra di chiamar gente ma non accorre nessuno, è notte fonda e goccia giù dal buio in alto, e canta la civetta.

    Il bambino riesce a scappar su in stanza, si chiude a chiave, appoggia il volto alle gelosie chiuse. Lo stanzone, la mamma sfiancata, le scale, il dito ingenuo che guarda dal piede dell'uomo buono, la madre, LA MADRE!... Non pensare, piccolo bimbo su in stanza. Non pensare a nulla, calmati; qui c'è il letto, il vaso sotto il letto, e là la pendola - vedi? Dormi, dormi piccolo ometto! "Si ma la madre! Signore, dove sarà che farà ora la madre?"

    Dormi, dormi ora piccolino.

    La mattina lo svegliò un fiato di freddo; e, aperte le gelosie, la stanza rimase scura. Tempo di pioggia. Per l'aria buia, come se stesse facendosi notte, salivano al cielo strisce giallastre nello spazio plumbeo. Muri umidi, gelsi a fronde lucenti giù per la campagna; il fango scioglieva come un odore fossile. Veniva giù qualche volo di gocce - non più d'un leggero tono d'acqua in questo panorama paesano.

    E lui fu mandato a vivere dalla nonna per qualche giorno, chè il padre chiedeva pace per tornare buono. La nonna aveva una casa alta con portici di sasso e rami fin sui vetri delle finestre, e tante piante da frutta innaffiate dalla pioggia. Gli dà qualche libro, la nonna, lo lascia errare per tutta la casa; lei è come se non ci fosse, così muta e sottile, poco più che se fosse dipinta in un quadro. Letti i libri lui mette sottosopra ogni cosa, il solaio, i ripostigli, fin quelle stanzette dove il latte si rapprende nelle conche. Scopre cartoline raffiguranti paesaggi di neve, auguri di buon Natale, castelli rosseggiati in tramonti esotici. E piove sempre, ogni tanto la scena s'illumina di lampi: quei giorni fu un via vai di bizzarri temporali.

    Allora il bambino costruì un arco tagliandolo da un salice dell'orto a furia d'acqua: lo spiegò, legò uno spago ai due capi, fece alcune frecce di rametti vibranti; e si divertì a colpire scatole vuote, galline dal seno di piuma e frutti appesi ai rami, mirandoli direttamente dalla finestra. Ma un pomeriggio tornò di colpo il beltempo. Lui corse al riale che il sole ruotava su un mondo di cristallo e di lacca, e si sentiva un rumore pesante: era il fiume in piena. Il bambino trovò la sua opera distrutta.

    Si rimise al lavoro che le ultime nuvole sparivano, soffiate, dal cielo; e in poco tempo rifece il pozzo tale quale come prima. Allora pensò alla barca. In casa della nonna c'erano mille ferrivecchi: prese una cassa lunga come lui e provò a immergerla nella vasca del bucato. Ma l'acqua che ribollì all'interno la fece calare a fondo. Incollò assi alle fessure, fece un punta all'imbarcazione, che si sapesse qual'era il davanti e quale il didietro, stoppò ogni buco con un secchio di colla di pesce, inchiodò una cassetta affinchè il navigante potesse sedersi; e infine, da due lunghi legni, tagliò i remi.

    E si mise in cammino col cuore che batteva, barca sulle spalle; ma cadde. Applicò due rotelle alla cassa e tornò ad avviarsi pieno di speranza. A metà strada gli pareva di morire tant'era l'affanno e la fatica. Il caldo lo accecava, i capelli, salsi, gli entravano fino in bocca; lo spingeva un ansia che ancora non aveva conosciuto. Oh ecco l'acqua, ecco l'acqua. Un po' di riposo, adesso: qui all'ombra di un gran sasso potremo leccare questa spalla da cui esce un filo di sangue. Eccola li, la barca: è proprio venuta una gran bella cosa. Ma... cos'è caduto in acqua? Una mela marcia... Chi l'ha tirata? E queste noci, una grandinata di noci acerbe... Su in piedi, bambino!

    Più in là, sul ciglio dei prati, s'allineava la banda di Marzio al completo. Il bambino mostrò di non aver visto nessuno, e si volse per tornare alla barca; ma una zucca volò zirlando alla sua testa e lo imbrodò di giallo.

    Urlando di rabbia si trascinò presso la barca e afferrò due pietre taglienti. "Provate se ne siete capaci" grida: ma la banda, sparpagliata, avanzava al coperto dietro sassi e cespugli. Verso di loro il bambino scagliò a caso una pietra dopo l'altra: un grido atroce riempie l'immenso greto del riale, si spande tra i prati e il cielo. Inorridito il bambino s'alza per vedere: di colpo gli saltano addosso, lo sbattono a terra e, inchiodandolo con duri ginocchi su ventre, gli colmano naso e bocca di fango. D'un tratto uno di loro scoprì la barca. Allora lasciarono il prigioniero, e tanto bersagliarono la povera cassa con pietre, tanto la colpirono con randelli e slabbrate radici da sfasciarla completamente, per poi abbandonarla sulla sabbia aperta come un cadavere.

    Il bambino piangeva enormemente. Rimase sdraiato per un paio d'ore, gemendo all'ombra del sasso. Poi si lavò e venne sulla strada che attaccava un tramonto viola come non se n'era mai visti. Che strano: quanta gente davanti alla casa del Romeo! E la macchina del Signor Dottore anche! Perché. Vide che il paese era in fermento. Al suo passare le genti si mettevano un dito traverso il naso e si mormoravano parole all'orecchio. Ebbe freddo, il bambino - era d'autunno: le brezze lente della sera fiatavano fredde sulla pelle, traverso i panni. Intanto l'uva marciva nelle vigne, ed esalava quel suo odore dolce slavato, a nuvolette. Non si fermò fino a casa, proprio sul cancello, quando sentì una voce nuova dalla finestra de cucina. Non sembrava la voce del padre di Romeo? Tante cose sentì il bambino lì sul cancello di casa. Da ultimo, il fracasso strappato da una lotta; fin che il Romeo padre (si chiamavan Romeo tutt'e due) uscì come un ciclone. La porta sparò dietro di lui. Più tardi la mano del bambino confuse il suo tremito con la maniglia del cancello che ancora vibrava. ↑   

  • RACCONTO DEL 1938 - Terza parte

     

    Dal silenzio che lo attendeva capì l'accaduto. Uno dei sassi che aveva scagliato a caso contro gli assalitori, dentro al riale, aveva ferito Romeo alla testa...

    Proprio non osava più muoversi. Temeva di ricevere tante botte da morire. Tremando sedette in un angolo, mentre la madre si rimise a pulire lo stanzone come faceva da tempo immemorabile. Nessuno parlava, nessuno lo guardava. Gli occhi del padre sono molto più che buoni, molto più che tristi. Sono viola quegli occhi: il Romeo padre era venuto a vendicare la ferita del figlio. No no,non val mica la pena di piangere, piccolo bambino! Volgi pure gli occhi intorno con indifferenza: che on si veda la paura che ti brucia, le cose tragiche che presagisci. Meno male: il padre è uscito, se ne va di sopra! Ahimè, eccolo già di ritorno: cosa mai nasconderà dietro la schiena? Cosa tiene a due mani dietro la schiena, collocandosi in tutta la statura d'uomo di fronte al bambino? Mio Dio, un enorme bastone...

    Di colpo il padre aprì il panciotto tirandolo per i risvolti, come certi beccai sfoderano coniglietti brandendoli per le orecchie. I bottoni del gilè saltellarono fin sotto il tavolo.

    "Figlio" disse il padre molto piano "se mi vuoi uccidere fallo almeno in un colpo solo, affinché io no soffra troppo"..., e offriva il petto nudo. Ucciderti padre? Ma no, chi ti vuole uccidere povero padre mio rattristato... Già l'uomo si slancia ululando sulla stanga; già l'alza al soffitto... quando ecco il suo sguardo si fa fisso, il piede cerca appoggio, la bocca gli si palanca; l'ometto cade dolcemente...

    La mamma grida, le vecchie accorrono chiamando i vicini che non si fanno mai vivi càpiti quel che càpiti; non giungono che i soliti giganti sdentati, i carradori. Il bambino fuggì che dai fossi la notte vaporava al cielo verde. Prese la via in salita, il bambino, tra pesanti vacche che tornavano, e arrivò ai vigneti slanciati alle pendici del monte, dove comincia la selva piena di voci. Sedette e la notte lo coprì.

    Giù intanto lo cercano con lanterne e pile elettriche, e vengono al buio selvatico mormorando e chiamandosi. Lo trovano che dorme; senza svegliarlo se lo tirano dietro, a casa della nonna. Sotto immagini di santi, in un immenso letto di ferro il bambino si ritrova sul far del giorno, e ascolta l'ombra andare più in là, e la vita tornare a fuggire con quel rumore simile a una radio che s'accende. Ecco: costruirà... Non era la piccola Teresita l'altro giorno ch'era in braccio al suo papà? E cosa disse lo zio, cosa disse?

    Eh, "quando sarai grande" disse "andremo insieme a ballare, e poi faremo venire gli uomini con un pianoforte e tu suonerai: plin plan..." Le muoveva le manine e faceva plin plan. Tanto a lungo continuò che il bambino si era sentito imbarazzato. Ora che si ricorda però... Ma si, costruirà un pianoforte. Che vedano - solo per questo.

    Dopo pranzo è già nella corte che lavora, e il sole gli scalda le ossa, a picco, per di dietro. Ficca due ordini di chiodi in una cassa vuota, e tende tanti fili di ferro; se gira la vite, il tono sale o scende. Nell'armeggiare, qualche unghiata che gli scappa sulle corde strappa da quelle un secco, lievissimo incanto. Ma bisogna costruire la meccanica del pianoforte, i tasti, i martelletti... Si perde. Le catinelle cadono, la cassa sembra una gabbia sgangherata, mancano le molle, le ovatte, i legnetti. Allora il bambino decide di limitarsi a una piccola arpa, e tende alcune corde all'interno di una cornice vuota. Regoliamo i toni: così dal grave all'acuto. È bello - si posson suonare canzoni:

     

    Dove ten'vai o fante mio

     

    oppure

     

    Un dì Girobacchino
    girando per Milan
    trovato ha un fico secco
    senza tessera del pan...

     

    D'improvviso la noia lo lava da cima a fondo. Il pomeriggio è appena incominciato, l'autunno arde sulle montagne: nel cielo giallo il sole splende di raggi scarlatti come nelle incisioni. Se una foglia si stacca dal ramo cade a picco come se fosse di pietra. Chi m'aiuta a uccidere il tempo?

    Discese allora fin sulla strada delle Alpi. Il luogo è proibito: troppe macchine, c'è pericolo. Da lontano, nel pomeriggio immobile, gli par di sentire i segnali delle vetture gridare rossi e ferrosi: e carrozze urtarsi, auto chiedere il passaggio tra scintille, e poveri ciclisti investiti addormentarsi nelle cunette... Dev'essere come una pista da Luna Park, la strada delle Alpi. Invece quando vi giunge la trova raccolta, in pace, con vecchia polvere riposata e tante cose alte e silenziose. Solo botteghe deserte trova, e svogliati garzoni. Il bambino siede per terra davanti a una rimessa. Oh ecco Oreste, il giovinotto vestito alla sportiva, che lo chiama. "Vieni" dice "Vuoi aiutarmi, così, senza rompere niente? Allora da una pompata a 'sta gomma".

    Al bambino piace il nuovo lavoro. Ritorna il giorno dopo, il posdomani - poi tutti i giorni. Entra nella rimessa come in casa sua., accanto all'Oreste che lavora chino, immerso nell'olio. La rimessa è un cubo di cemento, e nei giorni di solleone l'ombra vi appare come stellata. Al crepuscolo la bottega puzza come certe vecchie chiesette. Tutt'attorno riposano le motociclette: la Zehnder gentile e filogranata, la rauca, grossa Norton; tanti cilindri fracassosi dormono nell'ombra, e su tutto cala decisiva e zelante la polvere.

    In due settimane il bambino conosce a memoria tutte le marche di motociclette. Non solo: sta ad ascoltare quando si sente una macchina doppiare la curva, e dice: "è della tale marca". E quando la macchina transita rombando, tra le gambe dell'uomo che c'è su si può leggere scritto in oro che è come lui l'aveva annunciata.

    Il bambino era felice di questo, e passato il motore ci metteva qualche minuto a sentire le cicale nei larici. (Il barbiere veniva ogni tanto sulla soglia della bottega e sventolava un panno bianco. L'Armida premeva sul pedale della macchina da cucire, e i sentiva il barbiere: "Gioventù beata e cieca"... - frase che s'era messo a dire).

    "Questa è una «Moto Guzzi»" dice il bambino all'Oreste, un pomeriggio pieno d'arsura autunnale, "è una «Moto Guzzi», vedrai..."

    Invece, è una grossa automobile. Il tetto, scorrevole, l'han tirato giù fino in fondo; e, dietro, una giovane donna è sdraiata sui sedili. La donna fa penzolare le gambe nude oltre l'orlo d'incerato; per fantasia, o per prendere l'aria fresca che viene dai giardini. Il bambino s'incanta. A bocca aperta, non ascolta più le macchine che incalzano; ha voglia di correre, di far qualche stravaganza enorme, di piangere almeno... La tristezza lo appanna come un fiato su un vetro. Cose che vanno sulla strada delle Alpi: Marcellino curvo sotto un telaio, una blatta circospetta e incipriata di polvere. Anche il carrettino del Gelato passò. Al bambino planavano quelle gambe d'innanzi agli occhi, con muovere blando e capriccioso, idealizzate senza il resto del corpo; spuntavano da oltre i larici e avanzavano adagio, fino a fargli andar insieme la vista; gli entravano negli occhi, battevano sulla bocca riarsa. Tinnivano come se fossero vuote, di scaglia.

     

    Muto, il bambino non legge più nei libri e appena si ricorda del carretto e della barca. Pianissimo, accanto al padre che si meraviglia di non doverlo più educare (e quasi rimpiange), impara il bambino quanto sia difficile impedire che diventi fredda una memoria. ↑   

  • L'UOMO DEL VULCANO - Prima parte

     

    Nulla eguaglia la faticosa decisione di quell'uomo, di costruirsi la casa proprio sulle falde di un vulcano.

    "La terra è piena di boschetti" gli si diceva " di prati tranquilli e segreti, in riva alle acque". Ma lui, uomo originale, insisteva sul fatto che "era una sua idea", e tutti finirono col trovarsi un po' dinnanzi al fatto compiuto.

    Il palazzo nemmeno s'interrava nella triste e scabbiosa pendice del vulcano: lui aveva scelto addirittura un posto sotto la vetta, fatto di lava secca, liscia e nera di riflessi come certi serpentelli di ghisa che si trovano in vicinanza di alti forni. La pazienza di cento operai si era esercitata attorno a quei globi di lava, intagliandovi giorno per giorno la facciata del palazzo, i cornicioni, i balconi; sopra le finestre, certe vene della lava erano abilmente sfruttate in trafori aerei, poiché l'uomo, tra tutti gli stili, aveva pel barocco un gusto sostenuto dall'opulenza dei mezzi e da quell'età grassoccia che muove le forme direi colla coda dell'occhio, solo alle ali, così che l'immobilità ne risulta più solenne.

    E lui, l'uomo del vulcano, s'aggirava per le stanze stecchite dai muri foschi, alzando alle finestre d'un chiaro crudele quel suo sguardo fatto di mite e soddisfatta bontà. Con piccoli cenni del capo indicava agli operai il posto dove voleva ch'essi appendessero i quadri, che lui amava napoletani e panoramici, a cieli rossi e a soli calanti.

    Poi usciva, l'uomo, e passeggiava sullo specchio torbido ed incurvato della lava, nel breve spazio che separava il mondo del palazzo dall'abisso. Benché calzasse opache pantofole, talvolta scivolava lo stesso a s'aggrappava pericolosamente all'ossature minori del suolo, alle ringhiere che, con meticolosa perfezione, i lavoratori avevano scolpito partendo da un piano più alto d'un metro, e cominciando dalle punte, come gli scultori in pietra. S'aggrappava, l'uomo, e se non correvano subito a salvarlo s'ingegnava da solo, muovendo a piccoli strappi quella sua carne così pietosamente coltivata.

    "Non è niente" diceva allora a chi gli si faceva intorno: e con grande indulgenza per quelle insidie inevitabili riprendeva a camminare sulla lava, armoniosamente legato alla cautela delle sue pantofole. Poco a poco divenne un lavoratore anche lui, tanto s'era innamorato del suo piccolo mondo: lo si vedeva in costume di giardiniere (ma i suoi giardini erano come i tetti di una cattedrale) toccar con mano affettuosa gli spruzzi di lava seccati prima di ricadere e rimasti così, allungate esclamazioni di quella terra che lui s'era scelta a riposo. Erano i suoi fiori, quegli spruzzi taglianti; talvolta lo si vedeva muovere con la pantofola al posto dove, nei suoi ricordi di coltivazione, la terra che sta attorno allo stelo va pestata e incalzata: poi lo si vedeva alzar la faccia buona al cielo, nell'atto di chi, accorgendosi con comica irriverenza verso la propria ignoranza, di sbagliarsi, dica "Ah, non è terra: mi pareva bene...".

    E scivolava, fatalmente. Pericolava sull'abisso, senza agitarsi troppo a dire il vero; solo si seguivano i suoi sussulti, gli sforzi lenti e meditati che eseguiva per tornare sul piano sicuro.

    "Accidenti all'ometto!" esclamavano quelli del paese, che stavano tutto il giorno col naso all'aria, ai piedi del vulcano, timorosi di vederselo arrivare rotolando a ognuna delle sue scivolate. Ma lui, l'uomo, s'era fatto costruire quel palazzo, e ci teneva a scrutarne le possibilità di miglioramento, adattandosi, già anziano com'era, a faccende che prima gli parevano riservate a uomini di servizio - teso com'era sempre stato alla fuga della ricchezza.

    E tutti potevano seguire, a sera, le sue piccole faccende d'uomo metodico e amante delle proprie abitudini: delle musiche ronzavano traverso le pareti, a raffiche - musica della radio; e più tardi il passaggio d'un lume da finestra a finestra diceva che anche per lui era giunto il tempo dei sonni.

    Ci fu chi s'ostinò a andarlo a trovare fin lassù, sfidando la sdrucciolevole insidia della costa, un po' per curiosare un po' per seguire l'invito di abitudini socievoli che l'uomo del vulcano sembrava gradire, del tutto come gli altri possidenti del luogo. Ed erano ricevuti con cordialità: la serata trascorreva in quelle discussioni un po' morte che usan fare tra loro i vicini di villeggiatura, accanto a bibite fredde, carezzando lungamente mobili e quadri con l'occhio. Poi l'uomo sbadigliava, caricava la sveglia, rispondeva distrattamente: era l'ora del commiato. E nella discesa arrischiata e pericolosa quei coraggiosi confessavano di saperne quanto prima, dicevano soltanto: "Però, che idea ritirarsi lassù!"

     

    L'ospite di quella sera era deciso a conoscere il perché di una simile decisione. "Costi quel che costi" si proponeva, scalando la parete di lava "avrà pure delle ragioni per agire così!"

    Con leggero avvio d'avventura picchiò dunque alla porta monumentale del palazzo che s'apriva a fil di parete, dall'altra parte del giardino; ed ebbe l'onore di esser ricevuto subito dall'uomo in persona, che molto affidabilmente lo accolse: "Salve! Che bella sorpresa!"

    "A dire il vero" fece l'ospite "è un po di tempo che rimando questa visita; ma stasera mi sono deciso".

    Chiacchierando fecero piuttosto tardi. Da qualche minuto l'ospite andava e veniva dalla finestra, con fare preoccupato: e dal davanzale si affacciava sull'abisso, dove gli attimi di notte si seguivano senza fine; poi tornava al tavolo, agitato.

    "Forse non vi sentite più di far la discesa" disse a un tratto l'uomo del vulcano: "potreste dormir qui da me, alla buona...". Era ciò che l'ospite voleva. E non per scoprir nottetempo chissà che segreti: intendeva soltanto assistere l'altro durante il giorno a venire, per ricevere lungo l'esercizio quotidiano delle sue abitudini quella rivelazione per la quale aveva fatto tanto cammino.

    E il giorno inondò il vulcano di riflessi, battè alla facciata chiusa del palazzo e penetrò nella camera dell'ospite in un gioco di rabeschi sul soffitto.

    "Ah, ci siamo" si disse il visitatore; e scese a colazione armato di malcelati interrogativi.

    L'uomo sedeva già al tavolino di lava del balcone, accomodandosi la salvietta sopra il costume di giardiniere che da qualche tempo amava indossare: il caffè fumava nelle tazze; c'era l'odore dei panini abbrustoliti, quello dolce e spesso del miele - questi odori conosciuti e sicuri. Come visto attraverso un gioco spaziato di vetri, il mondo si stendeva per larghi tagli di colline e di valli, a perdita d'occhio.

    "Gran bel posto, questo" disse l'ospite "per la vista!"

    Rispose l'uomo "vero, eh?"

    "Talvolta" aggiunse l'ospite "val proprio la pena di compiere uno sforzo, pur di contemplare tanta meraviglia. Peccato" disse ancora, cominciando a tastare il terreno "che la si possa godere da una parte sola".

    "Da una parte sola?" chiese l'uomo del vulcano. "Ma si" fece il visitatore "sul davanti, faccio per dire; dietro c'è la scarpata".

    "Questo non vuol dir nulla" fece, conciliante, l'uomo "non ci sono nemmeno finestre, dall'altra parte: non so se l'avete notato".

    "Credo bene, che non ci sono finestre!" esclamò l'ospite "e chi ce lo farebbe stare?" Strizzò l'occhio. "Fa caldo di là, non è vero?"

    "Per questo" rispose l'uomo "vi do pienamente ragione. Venite vi voglio mostrare qualcosa". Così dicendo condusse l'ospite nel crudo giardino rotto soltanto da spruzzi di lava secca.

    "Vedete?" disse "ho la mia brava grotta".

    Erano all'imboccatura di una galleria naturale, non tanto profonda dato che laggiù scorgevano un riflesso di rame traversato di faville. ↑   

  • L'UOMO DEL VULCANO - Seconda parte

     

    "È li dentro, il caldo?" chiese l'ospite.

    "Non lo sentite?" chiese l'uomo a sua volta.

    Infatti dalla grotta uscivano aliti caldi e odori di minerali roventi.

    "S'avessi saputo che c'era questo focherello a pochi passi" fece l'ospite "non avrei riposato tanto bene, stanotte!"

    "Adesso vi dico una cosa" fece l'uomo "ma non riportatela a nessuno: io dormo bene proprio peerchè qui accanto c'è il vulcano".

    "Ma è terribile!" esclamò l'ospite "i vulcani non son come le altre montagne: ogni tanto traboccano e fan disastri!"

    L'uomo fece udire un risolino ottimista. "Non questo, d'un vulcano!" disse con quella sua aria di grande bontà "no, questo no!"

    Mentre parlavano, delle forme infocate simili a uccelli rossi venivano a spegnersi nel giardino, in ceneri traforate.

    "Vedete questi qui?" esclamò il visitatore "se ve n'arriva uno sulla testa, mentre passeggiate?"

    "Bisogna ben stare un poco attenti!" disse l'uomo "credete che tutto sia così facile, anche giù abbasso?"

    "Laggiù non ci sono gli uccelli roventi" fece l'altro "è già un enorme vantaggio".

    "Ci sono insidie che nessuno conosce" disse l'uomo "trabocchetti, agguati: credete a me, giovanotto, che n'ho viste tante!".

    Passeggiarono un po', silenziosi. "State attento" disse a un tratto l'uomo "ora facciamo un bel gioco".

    Condusse l'ospite per mano fin sulla bocca della grotta, gli fece cenno di non muoversi; accese un cerino e lo gettò verso il riflesso di rame che si scorgeva nelle tenebre. Un suono grave tremò laggiù in fondo, lo spazio sembrò gonfiarsi, nubi di scintille palpitarono ed eruppero dalla galleria: e uno sbocco denso di lava colò fin sul giardino, andò verso l'abisso esterno, formò un rigonfio: poi divenne grigio, sempre più scuro, fumò un poco e fu fermo e spento.

    "Visto?" disse l'uomo, trionfante: colla pantofola strisciò sulla nuova lava, a mostrare che ormai s'era raffreddata e non c'era più pericolo. "Posso ingrandire il giardino, con questo sistema: uno zolfanello ogni tanto, e il vulcano allarga la mia terra".

    Appena dette queste parole scivolò sulla lava recente e rimase appeso per la punta delle dita, che nell'ansioso brancicare avevano trovato un appiglio. Il visitatore lo aiutò a rimettersi in piedi. "Vedete!" disse "le disgrazie arrivano così in fretta!"

    L'uomo del vulcano, per nulla impressionato, sorrideva mitemente come sempre, carezzando cogli occhi la casa tetra che poco distante nereggiava, benché il sole la investisse con forza. Il giorno trascorse così, in faccende quasi domestiche, diviso tra il giardinetto e l'ombra plumbea dei locali nel palazzo dove i due nascosero nell'ore calde del pomeriggio a succhiar mente gelate e a tacere lungamente. Verso sera l'uomo si recò di nuovo sulla bocca della grotta, gettò dentro cerini su cerini (una volta persino una candela accesa) e osservò il dilagare delle bisce di lava che, adagiandosi come ombrelli sugli orli del giardino, vi seccavano rapidamente, creando terrazze e nuove sporgenze. Il visitatore s'era quasi abituato a quel gioco pericoloso, e traverso le lente discussioni della giornata, aveva quasi capito il mistero dell'uomo del vulcano.

    Si ritrovarono, a sera, sulla terrazza. Era una solitudine selvaggia e rimbombante, vertiginosa di stelle e di strapiombi, senza una voce, senza un colore; tutt'e due osservavano la terra notturna giù nel profondo; poi alzavano gli occhi e li muovevano in fondo al silenzio del cielo, qua e là appesantito da rotonde nuvole sospese e immobili. E disse l'ospite "Allora, temevate le disgrazie d'ogni giorno, quelle che sempre ci attendono?"

    Rispose l'uomo "Direi di sì. La conoscete la storia di quello al quale avevano predetto che si sarebbe rotta una gamba, la mattina del giorno tale all'ora tale? Quello, che fa: "mica son stupido", si dice, "mica andrò nei pericoli: me ne sto a letto, semplicemente". Poi all'ora tale il letto si sfascia, così da solo: lui brancola un po', fa per alzarsi, poggia il piede in malo modo: e si rompe la gamba".

    "Allora voi" disse il visitatore "per fuggire il pericolo ci siete andato incontro?"

    L'uomo annuì. Ma non era questo il solo motivo. La sua bontà conosceva la mèta, ma si era studiata di farsi un cammino nelle cui salite e nelle cui soste attimi come questi gli potessero nascere accanto. Una sfida alla morte? Nemmeno. Vivere lassù, sul brontolare o il tacere ancor più pauroso del vulcano, voleva dire sì resistere giorni e anni dimenticato dalla disgrazia, ma significava anche seguire un cammino, quello per cui muoveva la sua contemplazione. E davvero, in quel momento, anche l'ospite comprese quale cammino si compisse, forse a loro insaputa; e pensò che l'uomo, il suo compagno, avrebbe potuto guadagnare ancora molta buona strada verso la sua mèta, da quella calma sera del vulcano.

     

    E allora gli salta una stramberia.

    "Mi vien voglia di gettarvi giù, così l'è finita una buona volta"! Grida all'altro, assorto con tutto il suo silenzio dentro la notte: e lo afferra per i panni e lo scuote sopra l'abisso. ("Quello" si ripromette il visitatore "mi guarderà sorpreso ed allarmato, si dirà: vuoi vedere che adesso il mio compagno impazzisce"?) Invece l'uomo del vulcano specchia la sua faccia mite negli occhi dell'ospite, lo guarda, serio e attento. Basta - stavamo già sognando. Tutto è così chiaro, ormai... Buona notte.

    E il visitatore si accomiata. Scende rapidamente fin quasi ai piedi del vulcano, e ogni tanto, a fil di roccia, guarda su all'uomo che, sempre seduto sul balcone, ha l'aria di non accorgersi di nulla. E s'avvia alle prime stradette del piano, il visitatore: ci si vede poco, è notte. Passa un gatto, stride un cancelletto, un passo affonda nella ghiaia. Le villette tacciono - è sera tarda - alberi e siepi non si vedono che in alto, contro le stelle. Poi un ponte: tranquillo, non c'è nessuno, qui come altrove: dove sono andati tutti a finire, stanotte?

    A una svolta vede ancora il vulcano: il palazzo distacca appena appena un'ombra sottile, una crepa come mille altre. Sul palazzo, un balcone: e là un omino che agita le braccia come a salutare: Addio, addio! L'ospite fa qualche passo, svagato e stracco: si volta ancora, il palazzo è già più lontano. Ma che accade lassù? Aiuto! C'è l'inferno, il finimondo! Il palazzo si muove, si sfalda: ecco il monte diventa fosforescente, si vede l'ossatura di ogni cosa - e l'uomo del vulcano? Ah, eccolo, si muove colla lava, precipita - gente! Gente! Non era valso a nulla, allora? Bello quel trucco... Roba da matti, però: per farsi dimenticare dal pericolo, confidarvisi tutto, così, come l'uomo del vulcano...

    Ma non sente nessuno. Troppo scuro, troppo silenzio: o forse tutti sono andati via - solo il vulcano veglia, in mezzo a fasci e fasci di notte. ↑   

  • IL VIAGGIO DI SAGGEZZA - Prima parte

     

    Perché i cani abbaiassero qualcuno doveva essersi fermato presso la porta della corte. - Va a vedere, Werner, forse è lo zio - disse il padre. Gli occhi di tutti seguirono il bambino fino alla porta, poi quando lui fu uscito corsero alla finestra aperta; e di li videro fuori sul sentiero, ferma nella luce della sera, un'ombra bianca immobile.

    - Non è lo zio - pensarono: attesero che l'ombra entrasse nella stanza dietro il bambino. - Mai visto un tipo così - disse la madre con voce di cuore; ma quando si accorse che l'ombra avrebbe potuto sentirla si apprestò a sorridere come faceva sempre di fronte a sconosciuti. Il padre invece considerò lungamente l'ombra che si era umilmente arrestata sulla soglia e disse: Uno di quelli della ginnastica.

    - Vi occorre qualcosa?

    - Vorrei soltanto riposare qualche ora - suonò la voce stanca dell'ombra; avrete un fienile, non so... una stalla: all'alba tolgo il disturbo che nessuno s'accorge.

    Il padre non capiva bene di che si trattava. Chiese: - Che ci sia qualche festa sportiva, domani qui a Brunnen o a Svitto? Poi notò le gambe magre e storte dell'ombra, il petto esile, una testa delicata e fragile di vecchio. - No - si disse durante il silenzio che durava - questo qui è già troppo in là negli anni, - ma, scorgendo sulla maglietta scollata del visitatore una fila di medaglie appese a spilli - Vittorie vostre quelle? - chiese schiacciando l'occhio.

    - Dicono - fece l'ombra. Alzò la mano e la sventolò sopra la testa. - Roba di tant'anni fa, però - aggiunse.

     

    La madre tornò a sorridere, tra cerimoniosa e pietosa. Non avrebbe voluto per tutto l'oro del mondo incontrarsi mai con un pazzo. Più che paura, le stringevano il cuore tutti - disgraziati, scemi, quelli del brutto male, e persino i poveri ubriachi delle sere di viaggio. Ma l'ombra assomigliava alla sua stessa povertà; la madre si rivolse all'uomo con un principio di apprensione fatta d'amore e di pietà, come per i suoi bambini. - Prima mangerete un boccone - gli disse - anche se non possiamo tenervi compagnia perché abbiamo già cenato.

    - Grazie, ho già mangiato anch'io - disse l'ombra e toccò colla mano palleggiandolo rapidamente uno zaino che portava dietro le spalle. Non voleva più mangiare; gli avrebbe appesantito il cammino il giorno dopo.

    - Farete bene almeno una salute - insisté il padre, cavando dal buio della credenza un litro semivuoto e frugando in cerca di bicchieri.

    - Vi prego, non fatemi bere - fu la risposta. - Mostratemi soltanto un po' di paglia, su cui passare la prima parte della notte. Mi devo avviare presto, domattina. Piuttosto - aggiunse calando di tono - avete sentito la radio, stasera?

    - Si - disse il padre richiudendo la credenza - ma non c'era nulla di speciale.

    L'uomo respirò. - Han detto qualcosa della Fiera Campionaria? - chiese - quella di Basilea?

    Fece il padre - Ma si, l'avviso dell'inaugurazione, per posdomani in mattinata.

    - Bene - l'uomo concluse. - Adesso mostratemi il posto per la notte. -

    Andò la madre, colla candela. Gli dettero la stanzetta del famiglio che era andato a casa per qualche giorno e gli raccomandarono di spegnere la luce, per via dell'oscuramento. - Abbiamo già preso la multa una volta - azzardò la madre, esitando sulla soglia; avrebbe voluto dirgli e ricevere qualche parola profonda a sollievo e a canto di quella sua amorevole apprensione.

    L'uomo no intese quell'invito segreto. Aveva soltanto appeso lo zaino al chiodo e ora, steso sul letto, sentiva la stanchezza sciogliersi e sgranarsi sulla freschezza delle lenzuola. Ma il buio che formicolava sugli occhi esitava a chiuderglieli, cosicché seguitava a veder tremare la finestrella polverosa e grigia oltre la quale non si scorgeva che un po' del muro di cinta e la parete rigida di una stalla o di un gabbiotto. Sentiva i cani ciondolare alle catene che tintinnavano, e di là dalla parete di legno presso il letto avvertiva un palpitare pesante e monotono: - Le mucche - si disse: era nella stanzetta del famiglio, destinato a dormir colle sue bestie.

    Nelle ultime ore di marcia aveva sognato accortamente di stendersi su qualcosa di molle e di sprofondarsi in un riposo totale, abissale e dimentico come la morte: l'aveva quasi temuto a un certo momento proprio per quanto s'accingeva a compiere; ma ora, sul letto fresco del servo, in quella stanza perduta nella campagna, gli pareva di doversi affrettare ancora di più, di doversi affannare verso la meta; e anche più tardi, quando il sonno gli ebbe un po' consolata la stanchezza, saltava su di tanto in tanto nell'ansia di avviarsi a qualcosa per la quale, forse, era già troppo tardi.

    Perciò non riposò a lungo: non appena rivide, fuori dai vetri, il murello e l'angolo di stalla sbiancati dall'alba, si mise a sedere, tremando un poco, sul letto: prese lo zaino, disfece svogliatamente i lacci e le fibie, cavò una fiaschetta e ne succhiò lente gocce di latte condensato.

    L'alba lo intimoriva sempre un poco più che la sera: stavolta poi si trattava di cosa ben grave. Gli pareva che i rumori dell'alba gli parlassero più direttamente in quel gran battere del silenzio così che i suoi timidi passi sul pavimento, il gemito del letto liberato dal peso e la frase mite della porta che si chiuse, dietro, gli parlavano decisamente, gli arrivavano come una precisa comunicazione, umilmente discreta, delle cose che, di giorno, sentiva di avere vinto, ancora una volta. I cani uscirono lentamente dalla cuccia e gli sgranarono addosso occhi assonnati e indulgenti; ma l'uomo per evitare il cancello scavalcò con una cerimonia di gesti il muro di cinta e, trascinando i sandali sull'erba grigia e sui fiori secchi, rintracciò il sentiero e riprese a camminare.

     

    Non era il camminare che gli faceva paura. Aveva fatto tanti di quei passi nella sua vita. Le medaglie che gli brindavano su petto erano altrettante vittorie in lunghe corse campestri di cui si ricordava con commozione e con una specie di orgogliosa malinconia. Gliele avevano ben nascoste, a casa; ma era stato così facile rintracciarle! A fiuto le aveva scovate, in fondo allo scaffo della nuora. Il miglior lasciapassare del mondo, quelle medaglie; anche il padre, la sera prima, aveva detto: Vittorie, vostre, quelle? - schiacciando l'occhio. Non tutti ne hanno, da portare sul petto: solo qualche soldato, negli altri paesi. Ma qui da noi non si fa la guerra: per i migliori di noi ci sono queste monete della gloria con gli atleti scolpiti e il luccicante, dorato radioso suggello: Primo premio. Cosa si mettono in testa, quelli di casa: che lui se ne debba vergognare, in fin dei conti? E che non debba partire? Sono tutti quei Primi premi che ha sul petto che lo fanno andare, alla sua età, come una misteriosa parola d'intesa e d'intelligenza. Avrebbe voluto vederli l'indomani, quei menagramo che forse ora lo facevano già ricercare dalla Polizia!

    È appunto alla sua età che uno arriva senza ragione in fondo alla sua solitudine, appiattato e vigilato come se dovesse rendere conto di qualche cosa: e allora un uomo, abbandonato e sgomento, si guarda attorno e trova che tutto è invecchiato, l'amore degli altri, le ragioni del proprio amore, persino il piacere stregato e malioso dei ricordi. E lui, ometto tranquillo che non aveva mai fatto del male a una mosca, non aveva trovato che queste medaglie, appese in sala dentro un albo a vetri: se n'era accorto quando il figlio staccò la vetrina dal muro e segando e inchiodando , sacramentando perché non trovava la pialla, ne fece un seggiolino. Allora lui aveva dovuto raccogliere le medaglie dentro un fazzolettino, e nel trasportare in camera, s'era fermato a guardarle sulle scale e di colpo non aveva più potuto fare un passo, né in su né in giù.

    Capita un giorno, e capita presto per molti, che il figlio cambi qualcosa in un seggiolino sacramentando perché non trova la pialla; e un uomo si trova fermo sulle scale, in fondo alla sua solitudine con in mano soltanto qualcuna di queste monete della gloria, annodate in un fazzoletto; e allora a quest'uomo salgono i primi pensieri profondi e piange, non si sa se di contentezza o di delusione.

    E in quel giorno l'ometto Hans Odermatt di Hospenthal, come tutti gli altri, arriva in cima alle scale con il carico amoroso, pesante e rinnovato delle sue medaglie, del tutto uomo nuovo o forse più carezzato e medicato nel suo abbandono. Chi lo biasimerà se ha voluto portare tutto questo (medaglie sul cuore) e con i propri antichi piedi di errante, da Hospenthal al luogo della festa? ↑   

  • IL VIAGGIO DI SAGGEZZA - Seconda parte

     

    Viaggia, ometto errante, bevi la polvere della strada, appoggiati ogni tanto al ciglione e ascolta il sangue sotto la pelle, le punture di caldo sul petto, avverti l'aria fresca venirti sugli occhi a folate e scorrerti per le guancie - e lasciati accompagnare lungo il viaggio da quella tua nuvoletta di pensieri, grata e saporosa, di cruccio disciolto e in liberazione.

     

    - Ma è già sera! - esclama l'ometto: e infatti l'ombra si incurva, viene in scena a grandi masse opache da una parte dell'orizzonte, si posa sul viandante e lo appesantisce come una materia. SI guarda in giro, allora scorge una targa di paese, la legge: Meno male - si dice - siamo già molto oltre metà strada: possiamo riposarci, ma per poco: slacciamoci lo zaino, apriamolo qui sull'erba: la fiaschetta? Ah, eccola: un po' di latte condensato (come diventa odioso quando non si beve che quello!) Una michetta, un formaggino. La notte lo inumidisce quando è già più lontano, sotto il gioco roteante delle stelle e la presenza di alberi mormoranti, a distanze irregolari, giù per la piana.

    La sera non lo intimoriva; gli muoveva soltanto il blocco dei ricordi, lentamente, dalla parte di una più goduta malinconia. A quest'ora c'è più poco a vedere: un po' di strada grigia e solitaria, siepi di cinta, luci di villaggio che transitano lentissime, ai bordi di una catena di paesi che non finisce mai. Notte di cammino, questa: per nulla al mondo deve arrivare troppo tardi.

     

    Ma si, è bene Basilea che sta in fondo al suo viaggio: e a Basilea un recinto dorato e fiorante, laggiù sotto un delicato gioco di stendardi. Ma... un momento: insieme alla luce, da una finestra a fil di strada escono le prime frasi del notiziario. L'ometto si appiatta ai piedi di un albero, dall'altra parte della strada di fronte alla finestra. Vi scorge una vecchia che fa qua e là con vassoi, qualche bambino in piedi presso la gamba del tavolo, l'ombra di un uomo seduto alla finestra, chino sulla radio. Notizie: una dopo l'altra sempre le solite. L'ometto respira: non lo cercano ancora. Riprende la via svelto e consolato, accompagnato a tratti da gatti meditabondi - un canto passa lontanissimo - un treno fischia all'uscita della galleria, nei giardini dell'albergo un gruppo di gente che non aveva visto esplode in un sussurro di parole, improvvise blande e significative come in sogno.

    Di notte tutte le strade del mondo si spaziano in una sola, indistinta e infinita, ove s'avviano gli uomini che si sono fermeti un giorno, pensosi e piangenti, sulle scale di casa. E per l'ometto Hans Odermatt il momento è troppo importante per non seguire la strada delle strade, per non fare la sua parte di cammino verso il miraggio.

     

    La luce debole e vaga dell'alba lo raggiunge ancora sulla strada, gli stempera il bianco della maglietta, cerca sordi riflessi sulle medaglie. È il momento della pausa, il colloquio colle cose parlanti e piene di sottintesi: ma è anche l'alba del gran giorno: l'ometto moltiplica i passi tremanti di fatica e, seguendo un suo schizzo delle strade e dei luoghi, arriva nei villaggi che stanno intorno a Basilea. Sulle piazze i tigli sono ancora immersi nella notte, ma già s'aprono le finestre i lattai passano caracollando sui carretti carichi di bidoni, il signor curato va verso la chiesa, imbronciato di sonno, e sfodera sul viandante un occhio attento e allarmato. L'ometto si affretta. - Ci sarete tutti, alla Fiera Campionaria - si dice: è sicuro che tutti si avvieranno tra poco verso l'orizzonte di faccia, perché è già giorno spiegato, e quelli del Comitato l'han detto ben chiaro, sui giornali e per radio, che l'inaugurazione avrebbe avuto luogo alle nove.

    L'ometto si offende quasi di non sentirsi troppo impaziente, troppo felice nella sua impazienza. Forse l'emozione invano contenuta è troppo assaporata lungo il cammino, a ogni passo, gli pesa sul cuore in un sottile sbigottimento, gli tiene chiusa la porta dell'estasi: leggermente lo disincanta. Ma ogni esitazione non è più possibile. Case e case, strade massicce, finestre, un ponte: siamo già quasi giunti.

     

    La città non è lenta e addormentata come i villaggi: l'ometto avverte un' armonia compatta ed elastica in crescendo, aumentata da tutte le strade e tramvie, dai portoni a vetri, dai giardini: l'armonia concertata, vasta e irresistibile dei mille passanti che oltre i rami delle vie e il gioco scalettato delle architetture, cercano l'ultimo pezzo della strada delle strade, quella della notte, in fondo alla quale come l'ometto troveranno il miraggio.

    Ed ecco l'armonia si slarga e si spazia, diventa un immenso piazzale gremito di folle, assordato di musiche a riflessi gialli, mosso come un mare: dinnanzi all'ometto che si è portato in prima fila la facciata accecante nel sole spalanca lentamente le sue grandi porte e come uno sbocco morbido e denso, porpora e oro, la folla dei giovani lacchè si disperde giù per la scalea.

    - Ci siamo, ci siamo - esulta il viandante: ed ergendosi sopra la sua fatica, ebbro di gioia e di riconoscenza, grande come non fu mai, prende lentamente a salire i gradini. Ma che accade? Una mano rapida e precisa lo attenaglia alle spalle, e con un gesto della forza di una macchina, stabilito e meditato, lo stappa indietro, lo immerge nel muro di sinistra formato dai lacchè impassibili e compatti, ve lo lascia infine, smarrito umiliato e senza respiro.

    - Cosa c'è? che ho fatto? che maniere... - vuole chiedere: ma l'urlo di una fanfara sommergendolo ancora di più nel suo sbigottimento, passa oltre e, colorando l'aria di frastuono, apre la strada ad un mazzetto di Signori compunti, cilindro in testa.

    - Ma certo, sarà per dopo - si dice, impacciato, l'ometto - che idea ho avuto di entrare davanti a tutti! - Prima naturalmente avanza il Comitato con i membri d'onore, le Autorità, le personalità: un momentino, un po' di calma! Verrà la nostra ora, tra poco, quando in tutti la prima congestione del miraggio avrà fatto posto alla cordiale fratellanza di ritrovarsi e di festeggiarsi. L'ometto osserva intanto il gruppo delle Autorità e pensa: - Che tipi in gamba, però! - Facce profonde, quelle: piene di una volontà non ostentata, lasciata apparire come segno dell'importanza del momento. Sono così gli uomini che noi non siamo mai diventati (vero, ometto?) fieri di misurata attenzione, consci e superiori.

    L'ometto pensa che forse gli dovrebbe temere: ma per cosa? Lui non ha fatto nulla di male, ha seguito la strada delle strade per portare laggiù in fondo quello che si era sentito in cima alle scale di casa, colle medaglie annodate nel fazzoletto. E quando vede un Signore in mezzo agli altri, scambiata qualche parola col vicino, spianare la compunzione del volto in un sorriso, anche lui, l'uomo delle medaglie dal suo rifugio di schiene rosse e immobili sorride perdutamente, unile e traboccante di gratitudine. ↑   

  • IL VIAGGIO DI SAGGEZZA - Terza parte

     

    E l'ometto s'intenerisce pensando che tra poco quei sorrisi saranno per lui, si fermeranno, leggeri e condiscendenti, sulle medaglie: - tra poco - si dice - subito dopo i discorsi!

    Intanto la festa si fa sempre più densa, tanto che lui non capisce bene quel che si fa: parlano tutti, si agitano, si urtano; più in alto passa un rumore continuo, rugginoso, e infinito. Lui vorrebbe che tutti ascoltassero: fa - Psst - colla bocca - perché parlano tutti insieme? - Vorrebbe che le parole dei conferenzieri cadessero negli altri come in lui, annunci di gioia, garanzie di considerazione, pegni di importanza. Ma quando le orazioni, dall'aria un po' improvvisata, furono terminate, la folla si spinse alle entrate come se pigliasse d'assalto la facciata. - Che avviene adesso? - si chiede l'ometto trascinato come in volo dalla valanga di Signori, nera e senza spazi come una lava - qui fracassano tutto! - Il suo miraggio è fatto di fragilità, facile a stacciarsi - e lui vorrebbe tenere su ogni cosa coi denti, proteggere col suo corpo i muri e i parapetti, le delicate colonne dell'atrio; ma sfuggito di misura al muro dei lacchè s'è ingranato in una forza più terribile che nel suo smarrimento gli pare cieca e male intenzionata.

    Ma una volta penetrato nella luce lattiginosa del padiglione, le genti svoltano nei vialetti coperti di sabbia e il tronco nero si dissolve: l'ometto si trova infine, perplesso e incapace di un gesto, di una voce, tutto solo accanto agli stalli dell'esposizione. A un tratto una luce disperata gli accieca il pensiero: - Forse è già troppo tardi! Pensa così l'ometto solo e sgomento: forse l'occasione è svanita, con volgere zelante e fatale, e queste occasioni sono più lente a ripetersi di un fatto stellare. Non sa che fare, che dire: s'incammina con un gruppo di gente, ma proprio quando sta per calmarsi, ad aumentare la sua confusione entra in scena una specie di ciambellano, con giacca diversa dagli altri, lento e definitivo.

     

    Ahimè, il suo sguardo cerca l'ometto già a parecchi metri di distanza: e quando l'ha trovato e ha acceso in lui un ansia rabbrividita e tumultuosa, scartando le perone sul suo cammino, preciso come avviandosi a un incontro previsto da tempo, stabilito da una legge superiore ed irrevocabile, gli arriva vicino e gli specchia addosso un'occhiata di condanna e di attesa.

    Dice l'ometto - Ma...

    E l'altro - Ma?

    L'ometto - Io... quelli del Comitato, dove sono? Me lo potreste dire voi, Signore...

    Il ciambellano alza gli occhi al soffitto. Basta, è sufficiente, grazie: siete gentile. Ha fatto segno che sono di sopra, al piano di sopra.

    L'ometto si affretta allo scalone, lo sale con una elasticità della quale non si sarebbe più creduto capace, s'immerge in un altro spazio come quello di sotto, irto di stalli, di architetture e di archi (simili a quelli della tettoia di casa sua, gli archi, ma certamente più lussuosi, disposti per il piacere degli occhi: ricordo della stalla lontana e malgrado tutto è una stretta al cuore!) Ma... e gli uomini ufficiali? Ah, eccoli, laggiù: pochi passi, tremanti e indecisi un gesto appena abbozzato, che l'ometto vuole timido ma dignitoso, tale da attirare discretamente l'attenzione... e senza saper come, in seguito a uno di quei riflussi che avvengono tra coloro che stanno discorrendo, si trova nel bel mezzo di un silenzio carico di gravità, solenne, elevato e interrogativo.

     

    Il silenzio dura veramente troppo a lungo. Signore, che dire, come far capire...? Allora l'ometto, con uno sforzo finale e disperato, apre gli occhi guarda i volti di quegli altri, attenti, cerca la traccia di quel sorriso di prima, simile a tutti i sorrisi - segno di una illuminazione...

    - Devo restare, devo restare ad ogni costo! - si impone, incapace di altre consolazioni: ma sta già fuggendo. Si rifugia dietro una colonna, sotto un ombrello di fogliami verdi, e riprende a consolarsi, faticosamente dapprima, poi con un ritorno chiaro e fresco di fiducia. - Non è stato niente - si ripete - che male c'è nell'essersi tuffato in mezzo a tutti quei Signori? Non ho nulla di cui debba vergognarmi, sono un galantuomo... È quasi normale, con questa ressa, di coincidere alla loro adunata. Dimenticheranno ogni cosa, quando sapranno... E poi, la giornata è ancora lunga, forse il mio caso verrà a far parte delle manifestazioni sportive che ha luogo verso sera...

    Intanto le genti zittiscono, si radunano, si dispongono, dinnanzi al suo nascondiglio, in due file compunte e geometriche: laggiù in fondo s'alza come un sipario, si scopre una pedana. E allora arrivano: un violino, un altro violino, un violoncello: un tale stacca dall'appoggio un istrumento più grande di un violoncello che ricorda vagamente le forma di un uomo in legno nero...

    E fanno sentire, sulle corde, qualche nota discreta e velata: poi si guardano negli occhi, si fanno cenno - e levano alta al cielo una rapsodia - La musica! - si dice l'ometto - è il concertino d'inaugurazione! - e s'appoggia alla colonna, trepidante. Chiude gli occhi.

    Che strano, però, la musica! Gli arriva in quel momento sopra le teste in ascolto delle genti, come quell'altro messaggio a metà scala di casa sua.

    Capita un giorno, sapete, e capita presto per molti: che il figlio cambi una vetrina in una sedia sacramentando perché non trova la pialla: e ci si vedon vicini tanti oggetti perduti lungo la strada. Quelle medaglie annodate nel fazzoletto fermano l'uomo lungo la salita di una scala domestica e rivelatrice e gli aprono gli occhi e gli levano dentro i primi pensieri profondi. Poi quell'uomo vuol cercare la sua strada verso la meta, anche se è tardi, anche se per farlo deve fuggire di casa - non importa -: ma quando è così vicino al miraggio viene la musica a spremergli il cuore, discreta e densa siche i pensieri profondi van già troppo oltre, di là del miraggio stesso, e i calzoncini e la maglietta e la fila di medaglie sul petto lo inteneriscono di miseria e di voluttuosa pietà. Ci mancava proprio questo: c'eran già tante cose al mondo, sornione e urgenti: no; gli uomini - che strambi! - bisognava che scoprissero anche la musica di violini e di voci, per compir l'opera...

    È ben tutto finito, per lui, accanto a quella colonna, sotto il piccolo bosco di fronde: ma la musica che gli giunge dal fondo della sala gli impedisce di capirlo. Forse non lo capì mai.

    Cammina, ometto illuminato e malinconico: la strada delle strade non può fermarsi così vicino a noi, in quella sala di luce piovosa e lattescente. Ci dev'essere da qualche parte qui o altrove un luogo dove le monete della gloria che hai sul petto avranno ancora libero corso - dove valga la pena di arrivarci fuggendo da casa, dopo giorni e notti di buon cammino verso il miraggio: quello e solo allora sarà il tuo gran momento.

    Siamo contenti che almeno tu lo abbia ancora creduto, ometto Hans Odermatt di Hospenthal dietro la colonna, prima di lasciarci per sempre. ↑   

  • LE BUCHE - Prima parte

     

    Non so come avvenne che mi accorsi di tutte quelle buche del mondo. Oh, non alludo ai buchi nella terra o nel legno, da chiodi - e nemmeno mi trasognavo alle buche in cui gli uomini vengono calati a dormire, sotto i caritatevoli e squallidi fogliami dei morti. Mi andavo invece accorgendo dei buchi spaziali e trasparenti - gli abissi - e dei fori insensibilmente elaborati attraverso i quali ciascuno può essere chiamato a passare, se non oggi domani. E di questi che non tardano a divenire due veri e propri infiniti, fui ad accorgermi per la loro insistenza a oscillarmi dinnanzi con un piccante e disperato richiamo in cui la mia povertà aveva continuamente luogo di misurarsi, pronta com'era ai sogni della fame e del miraggio.

    Quel ponte, per esempio: bisognava proprio essere nati in un paese eccezionale per trovar chi approvasse un progetto architettonico così poco votato alla tranquillità dei passanti. Salirlo fu facile: forse i gradini dinnanzi a noi - ero con la mia prima splendida compagna di allora - si lasciarono conquistare con quella sbadatezza delle cose inanimate (non indulgenza: sbadatezza). Ma quando fummo sulla strada del ponte, limitata da sbarre di ferro nero, e, proseguendo allacciati sulle scritte sportive che adolescenti innamorati e fantasticanti avevano tracciato col gessetto, giungemmo al punto in cui, finite le ringhiere, ci aspettavamo logicamente una comoda scala per la discesa, bisognò che nuovamente e con una più morbida stratta al cuore mi avvedessi di un buco abissale - da noi alle lontane montagne - traversato di nebbie pigre e di osterie solitarie.

    Come discendere? C'erano gli scalini, e alti come tutti gli scalini, è un fatto: ma larghi non più di due dita, e di pietra scivolosa. Chi ci menò in basso? Forse la presenza della mia splendida compagna ci irrigidì al frale parapetto, investendomi di una dignità di difesa e familiare che fin allora non avevo conosciuto.

    Il mondo, disteso nell'uniformità dei viaggi, fu la nostra pista di quel mattino. La città in cui giungemmo si fece capire senza complimenti di non volerci accogliere per la notte. Le case, scure e imbronciate, nemmeno si aprivano al nostro domandare. La compagna, stanca e vaga di sofferenza, batteva a quella mia dignità di difesa e famigliare delicatamente dolorosa che avevo conosciuto la mattina al termine del ponte; e io battevo al cuore del mondo - ma quello non ci offriva un posto dove rifugiarci al cader del sole.

    Finalmente, lungo una via di pagliai e di châlets, una sorridente bottiglieria che trovammo aveva in vetrina un cartello che rispondeva alle nostre speranze:

     

    Camera ammobiliata d'affittare

     

    Non era certo il caso di chiedere quanto costasse. Il nostro soggiorno sarebbe durato troppo a lungo per cominciare a occuparcene. Si presero la compagna e l'accompagnarono dentro; io pregai i presenti di scusarmi un momento poiché qualche affare da sbrigare mi chiamava altrove prima di notte.

    Quante volte, più tardi, mi rammaricai di non aver concluso nulla quella serata! Ma, incamminatomi dalla parte dei giardini, non potei più distaccarmi dall'ammirazione per tutte quelle gelide meraviglie che mi si offrirono. Nessuno può ridire lo splendore deserto e piccantemente impersonale di quella città, dai giardini pènsili ombreggiati da palme sorgenti da botti segate a mezzo e ripiene di terra, ai quartieri costruiti o rimaneggiati dalla mano malpratica ma roventemente ispirata di un fanciullo. Negri inverniciati brandivano sui piedestalli lunghe scimitarre d'oro. Gli orologi municipali, murati in logge di legno lavorato, segnavano le ore con l'evidenza insostenibile e prolungata di delicate mani nere, sorgenti da polsini di celluloide.

    La casa in cui entrai per procurarmi qualcosa da cenare era un immenso salone nel mezzo del quale s'ergeva una stanzetta senza tetto e senza porta, alla quale si accedeva mediante un finestrino rettangolare assai stretto. Tutti si recavano di volta in volta in quello stanzino per non so che faccende, e vi entravano ingolfandosi nella finestrella - perfino una donna ancora bella e prosperosa che penò non poco con le dolci gambe irrigidite ai margini.

    C'era l'agitazione tipica delle vigilie di festa, con folla che andava e veniva, cordialità di speranze negli occhi di tutti, lumi accesi innanzi tempo. Compresi che solamente per comperare un po' di roba salata sarei dovuto passare per quel finestrino. Non avrei mai potuto farlo! Non ero vestito abbastanza come si deve per accingermi a quell'impresa durante la quale era facilissimo che mi si sbucciasse una scarpa, scoprendo a tutti il misero stato delle mie calze - che la giacca mi s'arrotolasse addosso come la gonna della bella Signora poco prima, mettendo a nudo le bretelle aggiustate con pezzi di corda. Era del resto quasi certo che il piccolo specchio e il rossetto per le labbra che la compagna m'aveva dato a custodire poiché il suo vestito non aveva tasche, mi cascassero com'era già avvenuto una volta, andando a rotolare indifferenti fin nel mezzo dell'attenzione generale.

    Così, rinunciai alla cena. Fui ancora per poco accanto alle meraviglie dell'architettura e ai risentiti capricci della città, finché ritrovai la strada di pagliai e di châlets in fondo alla quale, dinnanzi alla bottiglieria del mio cuore, mi accorsi che il cartello era stato tolto, segno tangibile del contratto concluso. Allora mi rivolsi al padrone, che mi sembrò tipo faceto e propenso all'affidabilità; e quello, chiamata al banco una vecchia tossicolosa e greve di malanni, accese una lucerna e mi fece strada verso una porticina nera che s'intravvedeva in fondo al locale. Oltre quella porta con mia grande sorpresa non c'erano scale in salita.

    "Come" esclamai "la stanza non si trova nei piani di sopra"?

    "Venite venite" raccomandò l'oste "vostra moglie vi aspetta già. La camera è a fil di strada".

    Non mi piacciono le stanze vicine alla terra. Glielo dissi, ma lui si limitò a scrollare le spalle potenti e gobbe, sulle quali i quadretti di un vecchio tabarro si tiravano dilatandosi fino a diventare dei rombi.

    Una porta, un'altra ancora, ovattata di muffa; e infine una terza porta così bassa che per passare ci accoccolammo fin sui ginocchi. E i muri, all'ingiro, erano sottili come palizzate, e fatti di una specie di cemento o terra dura, fasciati di muschio come le porte; ma quel che mi colpì fu il riconoscerli tutti traforati, a disegni bizantini non privi di grazia ma grevi di una mortale simmetria. Provai a tastarne uno con la mano, e con mia grande confusione lo sentii cedere sotto la spinta, oscillando come un tendone, mentre scaglioni di calcinaccio rovinavano muti in una pioggia sottile e vaporosa intorno a me. ↑   

  • LE BUCHE - Seconda parte

     

    Mi rivolsi all'oste:

    "Uomo" dissi "i nostri affari ci imporranno un gran andare-e-venire dalla camera alla città: come mai potremo compiere ogni volta questo viaggio complicato? È un labirinto qui" aggiunsi poco dopo, imbarazzato dal suo silenzio. Sventolò la lanterna per farmi cenno di seguirlo.

    Fece "Avete già toccato un muro e avete provocato un piccolo disastro. Occhio all'edificio, giovinotto."

    "Non è stato per colpa mia" ribattei, giusto per mostrargli che non aveva a che fare con uno stupido "l'ho appena sfiorato con la mano: che colpa ho io se qui è tutto marcio"? Rimpiansi di colpo quelle parole. Perché offenderlo, povero oste? In fondo era stato l'unico sorriso del mondo alla nostra ricerca di alloggio. Si, ma quel labirinto da compiere ogni volta mi spaventava.

    Gridai "C'è o non c'è un'altra entrata, dalla parte della fiaschetteria"? Mi pareva che quella fosse ormai remotissima, tanto avevamo camminato tra altissime cantine, fiancheggiando muri disposti in tutte le direzioni, traforati a stampi che rappresentavano trifogli o profili di gigli.

    Disse "L'entrata c'è, se la volete. Ma allora non guastatemi i muri. Badate: è una condizione!"

    Ahimè, non avevo ancora capito!

    Le cantine, collegate tra di loro dai trafori dei muri, suonavano di vuoto ai nostri passi; ma quando l'oste fece un nuovo cenno con la lanterna per indicarmi la via, vidi il baleno della fiammella in cinque o sei punti; e guardando meglio e avvicinandomi di nascosto ai muri, vidi che dietro i trafori delle fragili palizzate si ergevano, da terra al soffitto, immense specchiere ghiacciate e verdognole.

    "Siamo quasi arrivati" disse la voce dinnanzi a me: e la lanterna mi segnò, balenando in tutti i muri, un pertugio quadrato dal quale trapelava un po' di luce.

    "È piccolo vero"? Chiese l'oste con un ritorno di quella affabilità che mi ero ripromesso di assaporare in seguito, poiché a me piacciono tutti contenti, al mondo: "è piccolo, sì: ma così imparerete a toccare i muri, un'altra volta"!

    Tante cose avrei dovuto dirgli, e così complesse, che rinunciai a obbiettare Mi infilai nel buco dietro di lui: ma per disgrazia non avevo notato che l'apertura, forse lasciata così da tempo immemorabile quando gli ignoti artefici avevano costruito quel sotterraneo, era come una finestra a quattro vetri o sportelli di cui tre erano scomparsi ma il quarto c'era ancora, ed era anche quello di delicato traforo. Appena lo urtai col capo mi si acquattò sui talloni, svelando così la natura terrosa di tutti quegli elementi sotterranei. Allora l'oste mi guardò per un istante solo, ma con profonda malinconia. Tristezza c'era nei suoi occhi - non rimprovero. Poi pochi passi, qualche scalino, una tenda: "Ecco la vostra camera" disse; e scomparve.

    Dapprima fui quasi accecato, Infatti ci eravamo immersi a lungo nelle tenebre, e benché nella stanza non ci fosse che l'estremo riflesso rosso della sera, gli occhi come gonfiati all'interno balenavano di circoletti rossi e dolevano in plastiche trafitture. Finalmente gettai uno sguardo su quella camera che sarebbe stata la nostra dimora per mesi e mesi. Una parete e mezza era fatta di alte e terse vetrate, dalle quali avrei potuto godermi il completo spegnersi imporporato e turbante del giorno, se ai vetri non ci fossero stati appesi, a guisa di trofei, nere pelli di capra e altri morbidi scendiletti selvatici.

    Mi volsi alle pareti dove, accanto a sbiaditi calendari e a disegni raffiguranti fioche beltà, altre pelli soffici e stecchite nello stesso tempo tappezzavano muri simili a quelli di prima, traforati con gli stessi stampi d'agro e crudo disegno.

    "Donna, creatura" stavo per dire - ma dov'era la splendida compagna che mi aveva seguito fin laggiù? E come aveva potuto compiere, lei così stanca e di cuore caritatevole, il lungo cammino di tenebra? Ma subito la scorsi, nella sua lunga camicia palpabile come carne, che, perfetta nel cuore come nella bellezza, aveva intuito il mio pensiero e scostava dalle vetrate le pelli incomode e angosciose.

    Parlando con lei delle possibilità di accesso alla nostra stanza, il sangue mi si gelò nelle vene accorgendomi che, per quanto cercassi affannosamente, nelle quattro pareti non c'era traccia alcuna di apertura!

    Intanto proprio dinnanzi alla vetrata (eravamo a pianterra) si andavano raccogliendo le genti della sera, e una lunga fila di occhi, chiaramente visibili nell'oscurità, seguivano ogni nostro atto senza esprimere alcun sentimento che non fosse fredda, concentrata attenzione. La città ci osservava.

    Ululando mi gettai contro una parete dai trafori a giglio, e quella crollò docile, dissolvendosi in terriccio e in fumo giallognolo; ma quando il fumo si fu dissipato la stanza ci apparve sbarrata tale quale come prima, soltanto un po' più ampia dalla parte della frana. Nel nuovo vano troneggiava una cosa simile a un enorme pendola, tutta luccicante d'oro e di pietre rare. Tra i pinnacoli a rocchetti e a pere d'ebano di quella piccola basilica vedemmo molti putti colorati reggenti bilance, corone di rose, mappamondi e stendardi. Allora, mentre stavo per chiedere alla creatura se ne sapesse più di me, quella con un piccolo grido ferito mi accennò alle vetrate. Vidi che proprio in basso, prima di terra, c'erano alcuni fori simmetricamente disposti, non più larghi di una tazza di birra: dai fori l'aria della sera entrava, e insieme il silenzio delle genti raccolte sulla via. La creatura mi fece capire che, mentre abbattevo il muro, quei fori, che lei prima aveva notato mezzo metro, si erano ristretti fino a quel càlibro.

    Forse fu solo allora che compresi: nello stesso momento una gran calma fu su di me, una pace infinita e consolata.

    E passammo molto tempo a occuparci di quei buchi, introducendovi un dito, poi l'altro, poi la mano intera. - di più non ci stava, almeno per allora. Fummo inginocchiati a lungo in quella stanza, sotto l'alte vetrate, a prepararci e ad allenarci per il giorno in cui saremmo riesciti a uscire dalla stanza per uno di quei fori.

    Poi, a sera tarda, sempre sotto lo sguardo irresponsabile e tenace di quelle genti sulla via, mi arrampicai alle gualdrappe dell'enorme letto a baldacchino che sorgeva in un alcova. E lassù la mia splendida compagna in un bacio dolcissimo mi avviluppò come una morbida biscia d'amore, consumata di galoppante patimento, e m'aprì le vie bianche e corali della saggezza nel sogno. ↑   

  • IL CUORE - Prima parte

     

    Ma sì, aiutatemi un po' voi... Conoscete qualcuno che abbisogna di vasellame, di famiglie di piatti in maiolica? Non avete sentito di proprietari in cerca di leoni pietrosi per l'entrata del palazzo? Sapreste indicarmi chi soffre per mancanza di macchine da cucire, chi cerca disperatamente pettorali di cavalli, statue di marmo, anfore giochi dell'oca, scendiletti, còfani e fontane?

    No, non riescirò mai a piazzare tutta quella roba. Del resto quando una vedova bella e fosca come quella della poesia mi condusse in certi locali a portico sul davanti della casa, e scostando lenzuola dai tavoli me li rivelò grevi di oggetti e di suppellettili, provai lo sgomento del viandante che, superata un'ultima cresta rocciosa, s'affaccia alle lunghe reti d'onde di un mare sospettato altrove... Mi spiegò a lagrime e a cenni che la passione del defunto compagno aveva alimentato quel mare proprio lì, sotto le stanze dove si cominciava a dormir più foscamente, di giorno in giorno.

    E che lui, - povero Niklaus - attraverso i sonni sempre più vorticosi di quella casa che si riempiva di oggetti, ebbe morte da loro che più dalle pene della fuga e dall'esilio.

    E forse in quel momento, laggiù presso la triste vedova così femminile nel suo nuovo atteggiamento di statua dolorosa, vagamente teatrale, mi impegnai incauto a occuparmi di quel mare di cose; avrei cercato di venderle, si, magari una per volta, per permetterle di consumare il suo dolore tra i drappi neri e oro della stanza, di usare ancora l'automobile in svagate passeggiate votive.

    I due erano tra i tanti emigranti che sotto il nostro cielo hanno trovato pace in povertà, o tra memorie. Loro, coll'immagine dei castelli, laggiù, specchiati in acque sontuose insieme a gorghi d'alberi e un tremolare di statue tra balaustre, s'eran portati solo i resti di una ricchezza che hai tempi doveva essere stata quasi favolosa; ma tali resti, in forma di gioielli e di pietre rare, s'eran consumati nelle compere pazze e frenetiche alle quali il povero Niklaus s'era pericolosamente abbandonato prima di morire.

    Lo ricordavo come uomo in un certo senso svanito d'aspetto, allampanato più che alto di statura, luccicante di anelli e di perle; aveva occhi profondi e due mustacchi, anch'essi delicati e smunti. Nel ricordo m'appariva nell'atto di concludere i più strambi affari con chiunque, pronto nel pagare e assolutamente muto di giustificazioni per la scelta dell'una o dell'altra cosa. Benchè tutti lo biasimassero, pur approfittando per rifilargli vecchie apparecchiature o oggetti disusati, io capii più tardi quanta grandezza malinconica ci fosse in quel suo ardente comperare e comperare.

    Comperò fin che venne a morte e lo portarono laggiù, tra i trifogli, coll'abito bianco che nel suo guardaroba restava spoglia ultima dei tempi opulenti. Lasciò quella parte di mondo che era riescito a procurarsi, disteso e grave come se anche lui partecipasse alla cerimonia. La vedova straziava i presenti ed era proprio più bella di quanto si potrà mai immaginare, nei veli funerari; e noi, intorno, costretti per forza di cose a suscitare tutti quei piccoli eventi che si insediavano nel suo cuore.

    Lei doveva averlo compreso più di tutti noi. Accoglieva, silenziosa sacerdotessa di quella passione, le compere del compagno, e ordinava al servo malpagato e infingardo di allineare le cose nuove sopra o accanto a quelle vecchie; ma conservava, la donna, una cera vaghezza nella disposizione, mettendo ad esempio i fiori artificiali nelle vaschette alabastrine in cui si allungavano colombe, oppure preoccupandosi che in nessun modo le oleografie o le vignette venissero appoggiate alle vasche di cemento, come tendeva a fare il domestico nel suo malmostoso lavorare.

    E più tardi, su in sala, abbracciava il marito con tanta tristezza; insieme, composti sui divani, aspettavano sera senza far verbo; le mani esangui si stingevano, gli specchi diventavano meravigliosi infiniti, e su di loro alitavano le memorie.

    Io lui l'avevo conosciuto per via di parenti che gli avevano ceduto d'occasione vecchie mobilie e materiale da giardino. Mio nonno poi gli aveva dato, in cambio di un corallo color sangue, il suo cane preferito, una bestia violenta dal muso infiammato e dall'incedere selvatico. Aveva, quel cane, una testa proprio troppo grossa, pesante e come gonfia di cervello e di pensieri: tanto che non di rado mi chiedevo come mai la natura gli avesse destinato un capo tanto maestoso e geniale, a lui che solo maciullava ossa e veniva a sbattere elastico alle nostre gambe, grossa e lunga nòttola casalinga.

    Niklaus aveva preso il cane, poi aveva comperato una cuccia lavorata e ornata come un mobile, installandovi la bestia a guardia di quei suoi locali a pianterra che contenevano il mare di cose. E ogni tanto, ricordandosi di lui come di soprassalto, lo prendeva sull'automobile e tutt'e due scendevano in città, Niklaus davanti che guidava e il cane dietro, allungato sui velluti; e sognava sognava con quegli occhi aperti in cui volava convesso il paesaggio, laghi monti e alte ramaglie.

    Allo scopo di poter meglio imbarcare le cose comperate, Niklaus aveva arrangiato la macchina, aprendovi nel didietro una porticina di legno e rendendola tutta irsuta di cappi e caviglie, ai quali affrancava gli oggetti a mezzo di funi sottili. In uno di quei suoi viaggi fui con lui più a lungo che tutte le altre volte, prima e dopo.

    Mi chiamò dalla macchina che io passavo lì, per caso, dalla piazza. "Venite con me" disse "devo procurarmi qualcosa che ancora mi manca".

    Fino allora conoscevo la sua passione solo per averne sentito parlare. Volentieri accettai il posto che affabilmente mi faceva presso di lui; e sopra il scivolare del motore gli chiesi cosa mai quel giorno s'andasse a comperare.

    "Oh, una cosa da nulla" spiegò "che da tempo rimando. M'han detto" aggiunse "che il cane qui dietro va nutrito a interiora di bestie: ventri, budelli"...

    Si passava appunto davanti a una Macelleria.

    "Aspettatemi" raccomandò.

    Lui partito mi rivolsi al cane; ma né carezze né minacce sembrarono ricordare alla bestia la nostra intimità di prima. Annaspava soltanto e alzava quel suo capo severo, lì dietro, sui cuscini. E respirava, con quel respirare da cane che suona di vuoto come se, dentro, l'animale non fosse che un profondissimo buco terroso e umido. ↑   

  • IL CUORE - Seconda parte

     

    Ma ecco già il mio uomo che avanza. Portava un grosso pacco di carta spessa che s'andava inumidendo di macchie nerastre. Lo depose sul suolo della macchina e invitò il cane a nutrirsene; conteneva un blocco di nervi a gelatina. Ma il cane si erse pensoso sulle gambe davanti, sembrò titubare un istante: poi chiuse gli occhi e noi si continuò il cammino fin che Niklaus disse "Adesso provo in quest'altro negozio".

    (Si, cari miei, non spaventatevi. Lo narro per smemorarmene - prendetela così, se volete. Ventresche e sangue che vidi, attorno a lui, quel giorno già così lontano...).

    Ne uscì con un generoso pacco di budelli che gli ruscellavano tra le mani, umidi e grevi. Proprio questo portò fuori. E il cane non si mosse.

    "Va bene" disse l'amico "visto che non ne vuole porteremo tutto a casa. Anzi, volete farmi un piacere? Ecco qui cinque franchi: andate a prendermi un cervello".

    Entrai nella marmorea macelleria e comprai una testa intera, di vitellino, con l'occhio che pendeva appeso a un nervetto. Quando uscii era un po' più tardi, avendo dovuto aspettare che i feroci beccai servissero tre o quattro serve, spolpando con sottili coltelli quarti di enormi animali appesi ai ganci.

    E vidi che l'automobile sulla strada era vuota. Solo il cane c'era, acquattato come prima. Sbadigliava. Mi misi sul sedile davanti, e guardai il cielo. Improvvisamente la voce di Niklaus mi riscosse. Giungeva, l'uomo svanito e luccicante di gioielli, reggendo per le corna una smisurata testa di bue, che poi fece rotolare sul predellino della vettura come se si trattasse di un macigno. E dietro lui apparve correndo un beccaio, con un paccone dal quale pendevano ventricoli che scivolavano giù, dietro, a lambire il selciato.

    Tutta questa roba uccisa e fredda si ammucchiava accanto al cane che meditava, stupefatto.

    "Adesso aspettiamo un momento" disse il mio uomo "ho appena telefonato, e..." Ma poi, guardato un orologio, costellato di brillanti "dovrebbe già essere qui" aggiunse.

    L'attesa non fu lunga. Dall'angolo della strada vedemmo avanzare a ritroso un garzone insanguinato fin negli occhi, reggente i due manici di una barella. Lentamente il garzone ci si rivelò, e anche la barella si scoprì ai nostri occhi, pian piano; da ultimo veniva un beccaio che aiutava il garzone a reggerla. Tutt'e due incendevano cauti con la portantina in mano, dalla quale sgocciolava a intervalli una linfa rosa.

    Quando furono di fianco alla vettura posarono il carico per terra; e sollevando gli angoli di un sudario di tela misero sotto il sole un ampio cuore che sembrava battere ancora, dai canali e le arterie recise come nei tabelloni di scuola. Il cuore era tutto fibrato di vene palpitanti. Tremava, ingenuo ed enorme.

    Niklaus si precipitò ad aiutarli. Ed ecco si tinse di rosso la punta de guanto; se lo srotolò di mano e lo ficcò in tasca.

    Si mise a maneggiare i soldi, per la mancia.

    "Oh" disse "tu, bimbo: vieni, vieni che io ti guardi...". Carezzò il mento del garzone, che era giovin focoso e non conosceva la vergogna. Ma forse tutto quel sangue che aveva indosso ci impedì di vedere se arrossiva.

    "Cosa ti piace?" continuò l'amico "dimmi, bimbo! cosa ti piace al mondo?"

    (L'altro beccaio intanto affardellava la barella e già si disponeva a partire, un po' seccato, facendo cenni di nascosto e rifilando gomitate al giovane).

    Disse il garzone "Mi piace suonare la voce armonica, Signore".

    "La voce armonica?" rispose l'amico "oh, peccato che non ho tempo: m'avresti potuto suonare una solfa!"

    Poi alzò la mano alla cravatta; tastò un poco, trovò.

    "Va' bimbo" disse; e gli donò uno splendido diamante "va', e suona la voce armonica, con Dio...".

    Si tornò verso sera, con la macchina quasi spenta che non faceva rumore. Salite, discese: fin che ci prese la luna dall'alto, a tradimento, come un gran sogno un po' imbarazzato.

    Incontrammo strane cose, ma poi si passava e non s'è mai potuto sapere come andassero a finire. Oh, cose da nulla: amanti poveri in piedi sullo sfondo del cielo, un ubriaco che pativa in solitudine, un uomo - immobile - che si lavava i piedi nel lago. E due monache, spaurite e avviate, che mostrarono ben chiaro di non volerci nemmeno vedere.

    Lì nella luna come si era, e nel lento viaggio, cuori budelli ventricoli e teste selvatiche snocciolavano un murmure dolce, come care stoffe bagnate in un'acqua domestica. E nella luna e nel viaggio era con noi anche il cane, maestoso e segreto, e pareva un altro cane, e Niklaus pareva un altro Niklaus, e anch'io ero ben dentro nelle cose, giù in fondo, se tutto ciò che vedevo prendeva la forma del cuore. ↑   

  • CAPITATO UN SABATO SERA - Prima parte

     

    Cosa avvenne quel sabato alla stazione? Ma, bisogna che ricordi... So soltanto che il giorno di sabato s'era messo all'angoscia, e già a cominciare dall'alba - quando fuori dai vetri freddi della mia stanza vedevo i muratori salire e scendere dalle armature d'un villino che stavano costruendo in faccia a noi. Loro si agitavano oltre le venature del vetro che li aggobbiva o ne appiattiva la fronte, in un silenzio da sepolcro, con gesti irreali.

    Ma era ben da lì che cominciava l'angoscia del giorno, in forma di ritrovamenti subìti a pelle abbrividita, o di caldi al cuore a ogni pensiero. Perché mai non si andava in visita dai dai Magoria, nostri parenti, lungo le ore del giorno? No: s'era preso l'avvio a visite serali, ogni sabato, e bisognava proprio che a quell'ora, dopo cena, io e la mare ci s'allineasse sulla soglia, a spegnere tutto prima di partire. Il padre lui era sempre ai comizi del Partito, e non ci accompagnava che di rado.

    Serate dai Magoria, tra silenzi interminabili; e i calendari al muro, melensi, con numeri di sette in sette; e zio Fernando che aveva unghie tagliate rotonde in cima a mani che parevano guanti, e zia °Severina che nulla offendeva, uno sguardo, un modo di dire...

    E i due cugini, lei bella e lui brutto, chini sui compiti e sulle strenne, senza amicizia né sguardi...

    Sotto il grande paralume - uno di quelli che zia Severina costruiva giorno e notte per vendere a conoscenti - che incombeva sul capo e spioveva frange fin sui nostri occhi, il tempo passava in svagatezza; quando zio Fernando muoveva la testa per accendere la pipa, la sveglia appariva allo sguardo, con ore romane indecifrabili e sfere di filigrana. Tutt'intorno per la saletta ci chiudeva una palizzata - l'ombra della frangia che il lume spandeva ai muri.

    Talvolta diceva zia Severina "I figli non potrebbero suonarci un po' il piano?"

    Allora si metteva la loro Paola al seggiolino, e tirava su dal verde abbandono delle corde i motivi della giovinezza, a mazzetti, mentre tutti si seguiva il proprio turbamento. Dovevo poi mettermi anch'io accanto a lei, per le quattro mani. I candelieri di bronzo avvitati all'instrumento erano vuoti; ci avevano messo la chiave del piano, per intanto, al posto dei ceri. E quando si suonava una cera nota, la chiave nel candeliere vuoto s'avviava a friggere per lunghi istanti; e quel friggere era diventato il suono domestico di quelle sere d'inverno nella luce rosa della saletta, in attesa della nostra ora.

    Ci aspettava il ritorno sotto elevati cieli spettrali, con vento che vi strisciava, e tetti dagli stemmi e grondaie artistiche che vi intagliavano sorte di greche. Qui s'andava rapidi, io e la madre, nei paraggi del Muraccio, poi laggiù verso le case popolari e oltre, passata la stazione, fino al quartiere a parchi fronzuti dai cani di guardia, dove noi si stava di casa, tra una macelleria Equina e un basso Deposito dell'Arsenale.

    Lasciati i Magoria c'incamminavamo battendo i denti tra piazze e stradette, e i lampioni ballavano sopra di noi; si sapeva dove si era dal rumore del vento nelle case: arginato e a mulinelli per vie strette, ampio come un mare, e sfrenato, su piazze e giardini. Nella notte passava, sospesa e ivetriata, la palazzina dei Caraccioni (ricchissimi) con tutti i lumi accesi come per una tetra festa notturna. Ed ecco qui la vellingtonia di Via Paltenghi, incappata nel suo odore soave e spesso: poi i muraglioni che dan nome ai paraggi, su che sembra non finiscano mai, grondanti fiordaranci e muffa.

    E da lontano s'avvicinava il "Caffè degli Amici", col suo verticale che roteava trilli e le vetrine che il padrone aveva fatto dipingere da un artista di Lugano, a rappresentare appunto alcuni amici seduti ai tavoli, sotto tralci d'uva.

    Era il punto più temuto, quel Caffè: l'unico che si tenesse ancora aperto in quei luoghi; ed era assai frequentato, sia perché s'era sparsa la voce che il Passito vi fosse più stagionato e sciropposo che altrove, sia perché avesse ottenuto un permesso speciale dall'Autorità.

    S'incontravano allora ombre a noi lontanissime di cuore, che venivano via dal Caffè: un uomo anziano, un paio di amici a braccetto ma più che mai imbronciati e solenni; poi un'ombra sbucava dietro i due, e sembrava aprire la strada a un ingorgo di altri amici che aspettassero solo quel segnale per allontanarsi.

    All'altezza del Caffè il verticale trillava quanto mai vorticoso, e noi, passati oltre, si misurava da quel suono il terreno che guadagnavamo nel nostro viaggio. Talvolta invece, proprio sulle vetrate dipinte, il verticale s'arrestava di colpo, finita la carica che lo faceva vibrare; e solo allora si avvertiva quanto le ombre degli Amici fossero tristi, così senza parlare come stavano, risalendo la strada gelata a passi sonori. Ma noi si proseguiva lo stesso, quasi abbracciati lì sui marciapiedi, e sfrenati brividi correvano da me a lei, tra paura e compassione di noi, e malinconia.

    Quanti ne abbiamo incontrati di poveri ubriachi solitari nelle cunette! Loro sono le genti dell'ora e dei paraggi, distanziati uno dall'altro; e in loro ci sono tutti i fantasmi e tutto il male del mondo e quel gusto di caffè sopra il vino che rende il corpo, dentro, come una delicata e pericolosa belva. Ma, acquattati nelle cunette, erano troppo sopra di noi, o sprofondati - chissà - per vederci. Più che temerli noi si soffriva della nostra stessa pietà.

    Ma ecco che quel sabato lungo il riposare dolente di tutti gli ebbri, un uomo ci segue, a passi soffici. La madre mi stringe forte nel voltarsi a vedere chi sia e cosa voglia; e intanto s'affretta il passo e s'inciampa uno nell'altro - lei ci vuole tanto stretti!

    Le case popolari: cento, forse, o più, coi giardinetti stecchiti sotto la brina e il vento che investe i tetti tutti eguali ed è come un immenso organo nel cielo.

    Corriamo ormai lungo l'ombra interminabile dei tetti sulla strada; ma l'uomo ci tiene dietro - è facile per lui, uomo e solo, padrone dei suoi passi!

    La Stazione, solitaria nei campi, ci appare nella notte in fondo alla via. Allora venne l'uomo alla nostra altezza, sul marciapiede, e ci fece alcuni segni con le mani - larghi segni nell'aria scura, che a me parevano pieni di significato. La madre tremò così tanto che ebbi paura di perderla. Poi sentii del fiato nel petto in cui la mia testa, premuta, si sprofondava, che si disponeva a parlare. Ma la voce quasi non la riconobbi.

    "Cosa vuoi?" rantolava. "Cosa vuoi? Cosa vuoi?" ed era come un fischio grigio e tagliente, come parlano in sogno personaggi di spavento.

    Allora riconobbi l'uomo che ci inseguiva: era un tal Lao Argenta, manovale dei luoghi, che anzi il padre aveva chiamato una volta a segar legna. Lo riconobbi nella sua statura meschina, nella faccia grama e scavata sotto l'ala di una bombetta che chissà dov'era andato a scovare, forse da uno spazzacamino - loro ne portano, nel mestiere. Lo riconobbi alle gambe fiacche, a tutta la statura, protetta da panni grossi. Da capo a piedi appariva uomo color del bagnato, e gramo, e malinconico più del necessario dato il mestiere che faceva.

    Lo riconobbi nel momento in cui rispose alla madre.

    "Dolce stella!" esclamò, con un tono beffardo al quale mi sembrava non aver diritto "Stella mia! Sei tornata dal monte?"

    "Cosa vuoi?" replicò la madre con voce di sogno incattivito "vai, chiamo! Cosa vuoi?" tornò a ripetere.

    "Stella del mio cuore!" esclamò Lao Argenta "Sei tornata? No!" esplose di colpo con voce calmante "Io non tiro la rivoltella! Io no, no, no. Oh, no, no! Io non tiro la rivoltella!"

    Calmava, ma anche lui sembrava chiedere. Tutt'e due, sulla strada vuota, si temevano, o forse s'imploravano a vicenda qualche cosa.

    "Oh!" - il grido di mia madre mi venne all'orecchio che già si correva.

    Come filava la madre! Io le volavo dietro stringendo panni svolazzanti; e ho pensato, in quel momento "fortuna che il vento ci è in favore!"

    Sembrava infatti che il vento ci spingesse, facendoci pendere in avanti assai pericolosamente; così che avanzare il piede nella corsa voleva dire anche tenerci su per non cadere. ↑   

  • CAPITATO UN SABATO SERA - Seconda parte

     

    Tra i sobbalzi della corsa la Stazione, tutta sfavillante di luci ma silenziosa, era lì dinnanzi agli occhi, finché nella sua sagoma dura e fosca s'aprì la scalinata sontuosa e l'entrata si disegnò, coi tre archi di ferro che l'ornavano. Sentii nella madre l'ansia di raggiungere quel luogo sicuro, di potermi proteggere là dentro, sotto l'occhio benintenzionato dei funzionari.

    Toccati gli scalini ci volgemmo come di concerto, e fummo stupiti di non trovarci Lao Argenta ai calcagni. Lui invece veniva passo passo laggiù in fondo alla strada; ma benché non dicesse nulla, limitandosi a tendere le braccia verso di noi, ci fu palese che si dirigeva di nuovo alla nostra volta.. Bisognava fuggire ancora: ma eravamo ormai nella Stazione. Certo l'ora tarda e la mancanza di espressi notturni rendeva deserti i marciapiedi, muti gli androni sotto le vôlte tenebrose; ma una gran vita regnava nei segnali dei semafori, che cangiavano continuamente di colore; si abbracciavano braccia meccaniche con uno schiocco di ferraglia non troppo in buono stato, e nel gabbiotto di vetro che protegge le leve e i comandi si sentiva un affanno di rumori.

    Vi corremmo, ma nel gabbiotto dietro i vetri decorati di regolamenti c'era nessuno.

    Allora ci volgemmo ancora ed ecco Lao Argenta già un po' vicino, benché sempre passo di flemma. Corremmo su e giù: nessuno. Infilammo un portone, e una scala a chiocciola ci menò fin dinnanzi all'entrata di un appartamento.

    "Suona, suona il campanello" sibilò la madre.

    Suonai appiattendo il dito in un cerchietto di legno, quando l'occhio ci cadde sopra un cartellino che avevano affisso con due puntine nel centro della porta. C'era scritto:

     

    Capostazione molto malato pregasi non disturbare

     

    "Eh, non si può, non si può" disse la madre, desolata, torcendosi le mani; e salimmo e scendemmo scale, e ci si ritrovò lungo gli androni coperti e il gabbiotto vuoto dei comandi; l'Argenta non si vedeva, ma la madre sibilava tra sé, stracca dal gran correre "cosa vuoi, cosa vuoi?" ma non più forte del rumore solito che uno fa nel fiatare.

    "Ah" gridò con febbrile allegria "come mai non ci abbiamo pensato? Il Buffet" disse "il Buffet, terza, seconda e prima classe!"

    Buffet della Stazione e Caffè degli Amici erano i soli aperti a quelle ore. Vi corremmo, e nella grande sala riscaldata e illuminata vedemmo alcune persone sedute o in piedi, annoiate. Tra le palme c'era persino un orchestrina che suonava.

    La madre spalancò la porta come una ventata ma li di colpo sulla soglia fu chiaro che noi non si sarebbe saputo cosa dire.

    Un cameriere, l'Hans, che conoscevamo, venne a noi e chiese cosa potesse servirci.

    "Niente niente" disse la madre "ma... si, oh Dio!, piccolo mio, vuoi tu bere qualcosa? Eh? Una gazosa?" E intanto si frugava nella borsetta in cerca del portamonete.

    "Oh, gazosa!" disse sorridendo il cameriere "ma, a quest'ora non si servono che cose... gravi, si - di peso, voglio dire: spirituali" aggiunse, forse traducendo sommariamente un termine alberghiero di altre lingue.

    "Che cosa?" chiese ansiosa la madre "cosa intendete? E... andrebbe bene per il piccolo qui"?

    "Eh non so" rispose il cameriere "Si serve a quest'ora, come sarebbe a dire liquori e così distillati...".

    Fuori dai vetri si vide d'improvviso la testa dell'Argenta fare il collo lungo per cercarci.

    "Oh Dio" disse la madre "voi, Hans, che conosciamo così bene... che stimiamo, si - perché non dirlo? - voi, Hans, sappiate fare qualcosa... "

    "Oh oh! rise l'Hans "ma voi... ma tu... Via, quello è un caro avventore, un cliente di lusso... Signor Argenta! Chiamò, precipitandosi ad aprire la porta "Signor Lao Argenta! Entrate, entrate: rallegrate la nostra piccola festa! E fate come se foste a casa vostra!"

    L'altro entrò si sarebbe detto a malincuore, gettando ansiosamente lunghe occhiate in un angolo a sinistra dove, a un tavolo ingombro di vasellame usato, sedeva un grosso e florido omaccione circondato da tre o quattro tali che palesemente lo ammiravano. Uno di quei tali ammutolì alla vista del nostro inseguitore e diede di gomito al vicino: quello ci guardò con due occhi sbarrati e gialli, come un gufo triste, e si mise a picchiare coll'indice teso parecchi colpetti su gilè dell'omaccione. Questi ben vestito e distinto, si volse gravemente: e non appena ci vide sbottò in una risata generosa, infilandosi i pollici nei tiranti e avvitando le altre dita assai rapidamente, come se stesse suonando la voce armonica.

    "Oh là là" disse infine "l'è lui? Voi!" chiamò indurendosi improvvisamente; e seguendo la direzione del suo gesto vidi dall'altro canto della sala irrompere alcuni personaggi in uniforme, forse gendarmi ma non vestiti da gendarmi, piuttosto da ferrovieri o da suonatori di banda: galloni, stivali e bonetto. Quelli volarono su Lao Argenta ma non lo picchiarono: si disposero in cerchio attorno a lui e lo spinsero, con la sola forza degli occhi che loro dovevano avere profondissimi e spietati, ai vetri del finestrone.

    E Lao Argenta fu alla vetrata, spalle alla finestra e occhi sempre su di noi due giù in fondo.

    "Stella!" gridò; e "Vedi? perché hai voluto? Ma tu" urlò volgendosi all'omaccione che dal tavolo guardava la scena assai sbadatamente "Tu, ci si troverà il dì dei morti! Guarda! Guardate!" e a quest'ultime parole alzò la mano in alto, tutte le cinque dita aperte sbarrate; e a un tratto diede con la mano nel vetro, ma blando, come si tuffa la mano in acqua lungo viaggi di campagna. Il gran vetro della finestra cadde a pezzi, i gendarmi rimasero per un istante come trasognati, più bonari che sorpresi. L'Argenta lui teneva alta la mano nel cui cavo si raccoglievano i rigagnoli di sangue che colavano dalle dita.

    Ecco, e incredibile quello che i tre o quattro fidi dell'omaccione si agitarono. Mostrarono a gran cenni l'Argenta laggiù che sanguinava, poi muovendo le mani a curva mostrarono di alludere ai gendarmi, alla loto mancanza d'energia...

    Ma lui, l'omone, mostrò di disinteressarsi del tutto. Comandò una minestrina e la lambì a gran cucchiaiate, seguendo suoi pensieri.

    Parlò un gendarme "Adesso ti sei sbizzarrito abbastanza" disse in tono perentorio. "Olà" aggiunse, alzando la voce; e accennando col piede la porta, e frugando con quel piede stivaluto nelle gambe grame dell'Argenta "La notte ora!" esclamò, non senza estro "Sotto le stelle, per la strada!"

    Usciti, passarono sotto le finestre del Buffet in gran confusione: qualche gendarme s'abbassava a terra come per raccattare oggetti smarriti o fiorellini; e intanto l'Argenta faceva passi lenti lenti, bombetta in testa, e due poliziotti gli davano energici tocchi giù per spalle e schiena, così da farlo procedere balzelloni, a onda di mare.

    Il gruppo si perse oltre il portale.

    Passò molto tempo prima che noi ci guardasse in giro; ma gli altri attori della scena parvero come addormentati. L'omaccione poi, senza curarsi delle lente sollecitazioni che a cerchio intorno gli facevano quei suoi tre o quattro sgherri, si guardava le mani più profondamente che se quelle gli fossero apparse improvvisamente malate, o meravigliose.

    La madre mi spinse "Vieni vieni" disse.

    Il vento sollevava già il cielo laggiù dove l'orizzonte era più lontano e le montagne, nitidissime e cristalline, parevano appartenere a un altro paese ammesso che la notte non ne sia uno, incontro al quale non si faccia che camminare.

    Un tentativo d'alba distingueva appena le sagome maggiori e creava abissi dappertutto. Incamminatici all'uscita, laggiù in fondo a un sottopassaggio vedemmo Lao Argenta ballare sotto le mani pesanti dei poliziotti che avevano l'aria di gettarselo da uno all'altro come un fantoccio scorato, con dure botte.

    L'ultima visione di lui, nitida nel ricordo, fu quella della bombetta che, cadutagli di testa a un colpo più vigoroso l'Argenta cercava invano di raggiungere con le mani e coi piedi.

    Allora fu corta la strada che facemmo fino al quartiere dai parchi a fronde diramate nel cielo chiaro; e familiare, quasi allegro, ci giunse il concerto dei cani che di parco in parco s'accendeva al nostro passare. Tra la Macelleria Equina e il Deposito d'Arsenale trovammo casa nostra dietro il giardinetto e la pergola di cemento.

    Su nelle stanze sigillate dietro persiane e vetri s'accese l'elettrico, ma ci s'ebbe subito addosso liste pallide di cielo tra i legni delle imposte, e ciò rese tutto speciale il nostro coricarsi, come una cerimonia addolorata e piena di presagi.

    Andai dalla madre per salutarla, e m'apparve così abbandonata sul letto, e turbata nel suo silenzio - smarrita insomma - che mi fu facile immaginare all'ingiro le violette votive e i lumicini coi quali i poveri fan le loro feste mortuarie. Ma lei m'aprì gli occhi nei miei, e ciò ebbe gran significato tra noi due, benché non mi disse che di mettere la chiave sotto il tappeto, per il padre ch'era ancor fuori ai comizi.

    Il sabato dopo, e tutti gli altri sabati, s'andò ancora dai Magoria in visita; ma non ci accadde più nulla. ↑   

  • CONCERTO SERALE - Prima parte

     

    Quando dai vetri la città si nascose ai suoi occhi nella sera, e non restò chiaro che il cielo, qua e là appassito da macchie viola, lo scrivano del Municipio Ugo Gioia contemplò ancora una volta l'ufficio dagli armadi severi dove, dietro sportelli muniti di fitte ramine, ingiallivano vecchie pratiche e raccolte di Fogli Ufficiali. Aveva già fatto ordine sul tavolo; intascò il giornale che quella volta non aveva avuto il tempo de leggere, s'alzò sbadigliando, uscì.

    Per il corridoio c'era già il va e viene degli Uscieri che, secondo un ordine bislacco del Segretario, dovevano avvertire gli impiegati comunali che la giornata era finita. Lo scrivano richiuse la porta su quel suo mondo quotidiano ormai noto al ricordo come la cella del prigioniero; e s'affrettò all'uscita col solito passo cautamente rapido che non mancava mai di rimproverarsi: se qualche superiore l'avesse visto avrebbe potuto supporlo passo d'uomo che vada liberandosi ; questo non gli avrebbe certo fatto del bene.

    Infatti ecco il Signor Sindaco: esce proprio in questo momento dal suo studio e s'avvia al guardaroba dei funzionari, per ritirare il cappello e pastrano. "Stasera bisognerà che mi vesta di nero" pensa il signor Sindaco "e vestito di nero proprio sto male; poi il pocherino con quei due o tre ruffiani, di notte in notte, mi ridurrà uomo malinconico... Che buffo, un Sindaco triste!"

    Ugo Gioia ingrandisce la meccanica del suo camminare, volendo che assomigliasse al passo di chi, sospeso quasi a malincuore il lavoro, s'avviasse al riposo ancora trasognato nei compiti interrotti. Preparò il suo saluto: poco più di un sorriso leggero, pieno di rispetto.

    Ma il Signor Sindaco lo oltrepassò guardando altrove.

    ("Anche l'ingegnere" si diceva il Sindaco "che idea di dirmi che mi sto facendo trasparente?... Forse perché avevo tre donne in mano? Tanto la sua non sospetta che l'abbia, povero ingegnere! E che stasera, dopo il Concerto e prima del gioco... Questo mondo!" proruppe infine il Signor Sindaco che già scompariva giù in fondo al corridoio "questo vecchio, buffo e caro mondo!" E quasi era commosso al pensiero della propria felicità).

     

    Ugo Gioia intanto restava, sgomento. E la sera? E la notte che l'attendeva, con quel mancato saluto da ripensare? Uscito sulla strada, e ritrovato tra gli affissi murali un foglio bianco che portava solo un nome, a lettere enormi, si promise con nuovo sgomento di andar molto lontano, quella sera, anche fuori città; pur di sottrarsi alla tentazione del Concerto. Intanto corse a casa. Era l'ora di cena.

    Ma la porta era chiusa. La scrollò con violenza, irritato da quel fatto nuovo nelle loro abitudini; sentì i passi della madre nel corridoio, la chiave cigolare; e impaziente spalancò la porta quasi sulla donna che gli parve nuova anche lei per una sua ansia e un suo stupore d'ordine misterioso.

    "Cosa c'è?" chiese. E parendogli di capire che la madre non desiderava che lui entrasse in cucina, si ritirò nella sua stanza, si pettinò svagato, e rimase in piedi molto tempo, così da solo, accanto al letto.

    Improvvisi bisbigli fuori dal corridoio lo intrigarono. Chi poteva mai essere? Di colpo uscì dalla stanza, e inciampò nella madre che s'era messa un dito lungo il naso ad accennar silenzio. "A chi, silenzio?" si chiese lo scrivano: poi tentando l'ombra del corridoio vide una creatura piccola e grassa, ancora giovane, che scivolava verso la porta.

    "Che c'è, che c'è?" chiese il giovane "cos'è questa storia? Voi, si, cosa volete?..." Guardò la donna.

    Anch'essa lo rimirava come spaurita, o interdetta, con grandi occhi bovini in una pallida faccia dipinta; tra le mani stringeva un pacco vuoto e una borsetta. "Mamma" disse ancora Ugo, stupito dal silenzio che durava "cosa vuol dire... Ma parlate infine!" sbottò.

    "Ma... figlio io... era qui la Signora Manuela" disse la madre "era qui, passando, a darmi la buona sera...".

    "Ah bene" disse il giovane "su, c'è niente di male, no? Che misteri fate...".

    "Andate, via ora" esortò la madre volgendosi alla donna. Ma quella fece cricchiare con unghie lunghe e laccate la carta del pacco.

    "Non capisco perché dovrei andarmene così" esclamò con vocetta arrabbiata "che modi!... Io ero venuta..."

    "Tacete!" pregò la madre "non è niente... Siete venuta a darmi la buonasera, no? Com'è giusto tra vicini... passando...". L'altra intanto era riuscita a raggiungere la porta. Si volse

    "Si vado, vado" disse "ma non è giusto... Ve l'avevo detto: non è giusto... Guardate: devo forse aver l'aria di rubare? Eh? Ecco qui le mani, le dita: son come un cribbio lo vedono tutti...". Intanto era uscita e, già sulla scala, si rivolgeva "Badate, Signora Gioia, che non son donna da...".

    Ma la madre si era precipitata alla porta e l'aveva chiusa con violenza. "Lascia che vada" disse al figlio "avrebbe già dovuto essere a casa sua, a quest'ora. Baldracca!" esclamò.

    Lo scrivano stette a considerarla per un istante come trasognato, poi entrò di furia in cucina. Subito scorse, sopra la radio, un cappello di garza nera ornato di veletta. "Cos'è, cosa c'è qui?" chiese volgendosi alla madre con severità che tosto rimpianse.

    Ma la madre non rispose. Sedette al tavolo lentissima, si raccolse sulla sedia come un immenso gatto nero stanco, poggiò i gomiti sul tavolo e si prese la testa tra le mani. In quella posa di sconforto, e in quel silenzio, apparve al figlio come vecchia non conosciuta, più dolente di quanto i fatti della sera, benché strani, potessero giustificare.

    L'indignazione dello scrivano raggiunse il colmo quando capì che la madre piangeva. "Cos'è qui... Cos'è li?" diceva la donna tra le lagrime "cosa vuoi che sia, figlio! È un cappello, un semplice cappello da donna! Tutte per la città, n'hanno in testa uno medesimo!"

    "Ma si, lo so bene" esclamò il giovane "nulla di più naturale! Ma questi misteri... ecco quel che non capisco! È un cappello? E va bene; per chi? Forse... un regalo che vuoi fare?"

    "Eh no" disse la madre raddoppiando i singulti che la facevano quasi sobbalzare "volevo farti una sorpresa, figlio: una piccola sorpresa, tra noi... è giusto, no? È per me, il cappello - per me, povera vecchia... La Signora Manuela, che è la sarta, era venuta appunto a provarmelo - quella baldracca! Avrebbe anche potuto andarsene subito! - È per me! E questo è il male...".

    "Il male?" Ugo esclamò "Ma sai che... Chi t'impedisce di metterti un cappello in testa? Madre, io proprio non capisco". Sentì che non valeva la pena di continuare una scena che gli faceva perdere il pensiero del Signor Sindaco che non l'aveva salutato, o meglio lo volgeva in fioca e velenosa ansia, mentre era sicuro di riuscire a vincere quel ricordo solo con un preciso raccoglimento.

    "Madre" disse con un calore d'affetto di cui subito ebbe come vergogna "Hai fatto bene a comperare quel cappello... È nel tuo diritto!" - ma parendogli parole legate alla sua professione di scrivano, s'avviò di nuovo al pensiero del Sindaco, e fece per ritirarsi.

    "Ecco, figlio mio, così dici bene" esclamò la madre con espansione "mi ero detta: ma si, è un piccolo sacrifizio ma va fatto... È naturale che una madre accompagni il proprio figlio, quando non gli resta che quello nella vita? E che l'accompagni ben messa, come si deve: anche per non sfigurarlo di fronte ai superiori... Basta, ora non t'annoio più: se sei contento, se... sì, se mi perdoni, stasera metterò quel cappello per accompagnarti al Concerto!"

    "Ah no!" gridò lo scrivano "no, questo poi... Che concerto mi vai contando! Niente, niente concerti!"

    "Ma figlio" disse la madre "non vai al Concerto? Ci sei sempre andato. E poi: non pensi che te ne verrebbe considerazione...".

    "Ah, si: Considerazione, dice!" pensò Ugo: non sapeva, la madre, che al Concerto ci sarebbe andato, come di solito, anche il Signor Sindaco? Che c'era rischio che gli negasse il saluto, come la sera: e in più proprio sotto gli occhi della madre, della madre col cappello? "Non credere che ci andremo, madre" disse con violenza; e uscì fuori nella notte.

    Passeggiò pieno di fiamme fin verso i sobborghi, dove le bettole fanno andare i grammofoni e s'incontrano cani, e sconosciuti malinconici, e terrazze senza vista dove seggono intere famiglie silenziose a prender sonno. Fu ancora più lontano, presso rigide selve che, sebbene in solitudine, davano un rumore profondo. Poi una capanna suonò, e volarono frotte di uccellini neri tra i rami; transitò un'Osteria, dove un nugolo di giovani giocavano al Foot-ballino; ma da li, dai dintorni dell'Osteria, l'agitazione ardente e purtroppo nota (che era subentrata al desiderio di fuga) lo premette in una sola direzione, e lo trascinò sulla via del ritorno con la forza di un gorgo. ↑   

  • CONCERTO SERALE - Seconda parte

     

    Correva, Ugo Gioia scrivano, su e giù per marciapiedi che gli parevano sconosciuti, sotto un firmamento allungato da veloci orli di nuvole; la luna veniva e andava, luminosa; le strade deserte custodivano a lungo il suono dei suoi passi. Le silenziose famiglie sulle terrazze avevano già trovato sonno...

    Finalmente fu presso il teatro dove aveva luogo il Concerto. Quante volte aveva oltrepassato quella porta! Il bigliettario, vecchietto col gozzo che vigilava allo sportello, ricevette dalle mani tremanti dello scrivano il denaro dell'entrata; e accennandogli con la testa la sala gli consigliò di affrettarsi; chè si stava per cominciare. Infatti attorno a Ugo tutto era silenzio, come se si fosse in un palazzo abbandonato; ma poi, calcata la nota strada e scostate le portiere di velluto, giunse al limitare del salone dove una folla compatta slanciava al palco occhi d'attesa. In fondo a quello sguardo, proprio allora il sipario finiva di schiudersi, e dietro al nero pianoforte aperto Ugo vide incedere la solista: una giovane grandissima, grande e grossa, col vestito di velluto che pareva incollato sulle forme gigantesche.

    Durante l'applauso Ugo sedette in disparte.

    Un pianoforte che comincia a suonare nella sala appena tornata silenziosa fa proprio battere il cuore! Non lo capì mai come quella sera; e più forte delle altre volte s'impensierì per chi suonava, supponendolo, più con uno slancio di umano compatimento che secondo ogni logica, incapace di sostenere il compito che incauti organizzatori gli dovevano aver affidato, o meglio imposto. Pensava sempre così Ugo Gioia: e il suo cuore si allungava trepido alla figura della solista che gli appariva stupefatta sotto i mille occhi attenti. Forse, più che per lei lo scrivano temeva per la propria confusione, e per l'impaccio che sarebbe regnato tra il pubblico dopo che la solista, poggiate le mani sui tasti e trattine alcuni accordi leggeri, avrebbe dato inizio a un suonare che subito, tra altissimi stupori, si sarebbe azzoppato e si sarebbe concluso, trattandosi di una donna, in un gran pianto...

    Ma la Signorina si era accomodata sul sedile, spostandolo un paio di volte prima di trovare il posto giusto; poi, stese le mani in avanti sopra il leggìo, quasi operaio che volesse così far rientrare le maniche sulle braccia per essere più libero, aveva chiesto e rapidamente ottenuto dall'istrumento un chiaro colloquio di simpatia. L'ansia di Ugo Gioia si placò lentamente, ma per poco: chè, legittimata la sicurezza della solista, un rovente tumulto, ancor più prepotente del solito, lo spingeva fino ai limiti del dominio di sé.

    Avrebbe voluto alzarsi in piedi, ecco: tutto solo, in mezzo agli altri. Non gli accadeva mai di trovarsi a sentir musica in pubblico senza sentirsi tormentato da quello stupido pensiero. E la molla che lo spingeva su non si lasciava persuadere: in certi momenti bisognava addirittura afferrarsi al sedile, a due mani, e abbrancarvisi come a un legno in mare. Ma perché poi dovrei alzarmi? Cercava di convincersi Ugo. E dopo? Un bel disastro! Ma come sarebbe, qua, pensiamo: come sarebbe? Gli pareva di vederli: quelli dietro di lui, scortolo, intrigherebbero i vicini; altri, davanti, si volgerebbero rapidi per conoscere o proibire quel leggero sussulto, e vedrebbero anch'essi; fin che tutta la sala non sarebbe stata che un solo cerchio di facce intorno a lui, a dire o a chiedere qualchecosa. E intanto laggiù, che farebbe la pianista? Così librata a fil di musica continuerebbe a suonare, da sola; e farebbe le pause, e ornerebbe i capricci, e calcherebbe i pedali con scarpine d'oro, come se niente fosse.

    E poi? Ugo cercò di distrarre la voglia stupida e pericolosa guardando le teste dei vicini. Sperava che, riconoscendone qualcuna e accettando il loro messaggio di assorta dignità, avrebbe potuto calmarsi.

    Ma il destino fa sedere il Signor Sindaco proprio due file davanti. E anche attorno a lui flottano e s'aprono quelle misteriose vie dei suoni, che fanno così in fretta a menarvi al riposo, o tra le memorie... Ma tutto questo il Sindaco non doveva nemmeno sospettarlo. Con quella schiena dritta e vasta, il collo rosso ripulito dai barbieri come una cosa preziosa, quelle due mascelle sporgenti che di dietro si vedevano, una di qua una di là, era pur sempre l'uomo la cui venuta negli uffici era preannunciata da una specie di ventata fredda. Che lui abbia qualcosa da chiedere alla musica?

    ("È strana una donna che s'avvia al bacio!" pensava il Sindaco "Prima di tutto straguarda: è un fatto, straguarda, l'ho notato più volte - anzi stasera dopo il pocherino ci voglio fare attenzione. E poi sono di una dolorosa serietà nel viso... Come se apprendessero sventure di figli! Ah donne donne! Che soavissima balordaggine che siete!").

    Ugo Gioia intanto, lungo il pensiero del Sindaco in ronda d'autorità tra gli uffici, s'era arrestato al suo locale, tristemente familiare nel ricordo: e allora con sùbita illuminazione e un gelo in tutto il sangue si ricorda che quella sera, prima di partire, aveva vuotato il portacenere, con i mozziconi, nel cestino della carta... E l'ultima sigaretta - oh! Di questo si rammenta lucidissimamente! - non era spenta!

    È finita, è finita! Mormora tra sé. Nel cestino della carta la sigaretta langue con fumo dritto come una spada; e le carte intorno - tra l'altre un formulario che si ricorda di aver macchiato e stracciato - cremano, lambiscono il focherello come attirate, s'accartocciano: già volano faville...

    E il cestino intero scricchiola, e soffia il vento, intanto - alti fiati d'aria sotto la luna... Ma che fa quella giovane appesa al pianoforte? Perché smette tutt'a un tratto? Ah, non è che l'intervallo tra un tempo e l'altro! Ed ecco nel colloquio spiegato tra piano e donna nascere un giro preciso di note, come un rosario, e salire verticalmente; sarebbe quasi uno schiarimento, o un'uscita in una sorta di sereno, se d'improvviso tre o quattro perentorie ditate ai tasti bassi, dure eppur prolungate come chiodi infissi a gran colpi on casse vuote, non trascinassero le corolle sonore, frantumate, giù tra sordi rintocchi che segnano i confini di una gran tenebra. Ci devono essere ricami fragilissimi, ormai, accanto al cestino che si può immaginare rovesciato sul pavimento; come un vaso riversa fuori sbocchi di fiamme da cuore bluastro ma tenace; ecco, la scrivania farà suonare le giunture, e i chiodi dentro di lei zufoleranno lievi, come i cari ceppi dell'infanzia nei camini sereni. Nel cuore della scrivania i cassetti gremiti di carta scoppieranno a un tratto festosi. L'intera scrivania parrà un lieto palazzo di ricchi, a notte, illuminato per intime feste familiari - matrimoni, o accorate veglie a tranquilli, onorati defunti.

    Quanto fuoco nel mondo! Candele ardono in tutte le feste, e fuochi di pastori innocenti tra le selve, e vulcani: fiammiferi, poi, dappertutto, e giochi del Bengala, e fiaccole!... Poi, fronti di fuoco, sotto le dita fresche di madri alte ai capezzali. Che è se non fuoco quello che agita la tremenda pianista lassù, che spietata scapriccia con le mani nelle pari argentine dei suoni? Come se le sorde chiodate dei bassi non ingoiassero tutto! E poi: da dove vengono, questi musicisti? Mica da dietro il palco, sarebbe troppo semplice. Loro devono venirci da un mondo assai conchiuso, dove, quando ci lasciano, si portan dietro gli omaggi floreali: mondo mica da ridere, se i cappelli vi hanno profondità e spessore di mistero, con una rosa su; e se per lo stile vi si mangiano torte in forma di violini e di celli, e infine ci si parla musicando; laggiù le mani devono essere pensose e suadenti, amate e vigilate come meritano. Vi siete mai chiesti perché questi musici non dicono noente, almeno con la voce della bocca? Vengon trasognati ai palcoscenici, e in fondo s'affidano unicamente all'intesa convenzionale della musica col nostro cuore...

    E poi... ↑   

  • CONCERTO SERALE - Terza parte

     

    Certo il telefono non brucerà. Al massimo s'arroventerà, li in quel suo nero di lacca, e darà fuori lustre bolle che scoppieranno in lagrime secche. Sullo scrittoio vagano stracci di fuoco, anche per terra; gli armadi severi non sono lontani, un filo di fuoco li congiunge al resto della festa - le mille carte han gola di caldo, e si consumano già a fuoco ancora lontano. E il vento rinfresca, ma non fa che pettinare anime calde di fuoco. Ormai bandiere di fiamme son sul tetto del municipio! E il Sindaco, lì davanti: che dirà, quello? "Ma Ugo Gioia, scrivano, 1912, celibe: in piedi, in piedi! Parlate, dite, confessate!" Forse lui spera che rivelando la lontana sigaretta andata a finire non spenta nel cestino, il fuoco si ritiri dal tetto e venga ringoiato per gli androni del palazzo? Spera che si risucchi nell'ufficio di Ugo, il fuoco, che la scrivania si spenga e morendo le anime bluastre delle fiamme lascino brillare, a portata di tallone, il focherello in cima al mozzicone?

    Eh, bravo, il Sindaco! Cosa ne sa, lui, della vita? E di quel che c'è sotto, e dei posti, e della considerazione che un uomo si merita, e dei piccoli stipendi? Sa forse delle madri vecchie e accasciate al tavolo dolenti, e di ciò che rappresenta un cappello, nero e a ricami simili a lieve cenere, con la veletta? Oh eccola laggiù, la madre, cappello in testa!

    Innocente ancora, e salva, siede più avanti; e ascolta o piange.

    Ci sarà anche lei, quel giorno? E col cappello, magari? Ma il Sindaco avrà un bel dire, del parlare, del confessare! Chi potrà ancora tirare in ballo il mozzicone, dopo tanto tempo? (La pianista intanto ha sbagliato un accordo, quest'è certo: proprio quand'era laggiù sulle chiodate secche dei bassi; così che l'intera sequenza n'è sortita come precipitata, e sbilenca. Ugo sente quel vento di terrore che dalla gigantesca pianista s'ingolfa nella sala: nel ricordo di quella nota sbagliata, e fino al prossimo pensiero del fuoco, pericola nella tema di sé e della disgraziata lassù. Ma cosa è mai, una nota falsa! Lui sopporterebbe bene di dover suonare un Concerto, lì sui due piedi: pur di rassicurarsi in merito a Palazzo Municipio...).

    La musica va, viene, par sempre sul punto di parlare; poi si ritrae. E come gli antichi affidavano a frali giovanette i simboli più tremendi, dietro una soave mestizia trema nella musica il segreto del mondo.

    "Segreti per i fannulloni, però" grida lo scrivano dentro di sé, "per chi non ha altro da pensare!" Che varrebbe se lui dicesse qualche buon pensiero sulla musica, quando... Il Giudice: certo, non c'è dubbio, chiameranno un Giudice, il più importante, il più acuto: chè lui, scrivano malinconico e testardo, dovrà bene svelare la sua colpevolezza... E anche quello la stessa solfa: "Ma Ugo Gioia, scrivano, eccetera eccetera: parlate, su, non abbiate paura...". Proprio così dirà il Giudice: di non aver paura! Lui che ha casa di profumi e fiori nei bicchieri, su scrittoi, messivi da mani esercitate a far passare ogni cosa, anche la morte, attraverso una gentile dinamica tutta delicatezze!

    "Ma Ugo Gioia"!... esclamerà il Perito della Società Assicurazioni.

    "Ma figlio mio, figlio mio..." griderà piangendo l'ignara madre "figlio, figlio mio"... Poi il Giudice farà l'atto di andarsene, e la madre gli terrà dietro (eh, la conosce, lui!); e fuori sulle scale la madre prega e scongiura, a mani giunte, abbandonata in ginocchio sugli scalini - implora clemenza dal Giudice, con quel cappello in testa, ancora: e piangerà più di quanto sarà necessario! "Baldracca!" esclama piangendo la madre. "Figlio mio: nevvero che è stata quella baldracca? È sua la colpa? No?" "Ma no, madre, che dici... sei matta? Che c'entra la Signora Manuela. L'è venuta perché l'hai chiamata...". Sarà imbarazzante: perché in fondo Ugo si propone di andar li a rispondere ponderatamente, padrone di sé: e soprattutto di non permettere che eventualmente, approfittando della sua disgrazia, Capuffici e Sindaci osino insultarlo... Ah no!... Paga le sue imposte, e ha dignità d'uomo, è semplice scrivano ma non chiede nulla a nessuno... E il Sindaco: "Ma Ugo Gioia, scrivano, 1912, celibe: perché? Perché?!"

    "Ma perché sono disgraziato, Signor Sindaco!" esclamava nel pensiero lo scrivano, tra raffiche di musica "capito, adesso? Ma voi, Signor Sindaco: che siete buono, che siete giusto: voi che avete fatto dell'onestà un piacere... (no, non "piacere": qui è termine fuori di posto) sì, voi uomo all'antica, nel senso morale della parola: venite, venite qui da parte: lasciate, mandate via tutta questa gente, via anche mia madre, con il suo povero cappello; restiamo soli, Signor Sindaco: che io vi apra il cuore, che io vi narri - e giudicate dalle mie lagrime la profonda sincerità delle mie parole! - che vi confidi la mia disgrazia! Oh, no, non penso alla question del fuoco al Municipio: dopo, di questo parleremo dopo: non è importante, rispetto a ciò che ho da dirvi...".

    Ma da dove cominciare con la storia della sua malinconia? E poi no! No! Ugo Gioia si sarebbe schiaffeggiato per aver dato quel corso ai propri pensieri. Parlare così, lui, al Sindaco? Ma se quello era un incapace, un parassita! Non una parola, una decisione, una sentenza che non fosse dettata da una mortale bestialità. "E io" protestava vivamente lo scrivano "io che gli sono così indietro nella paga e nella considerazione del mondo, io che lui tormenta con la sola presenza, che non si degna nemmeno di salutare, io lo domino quest'individuo! Mi arriva al ginocchio! Lo domino! lo domino!"

    "Come lo domini?" chiese nel pensiero del povero scrivano una vocettina piccola e sottile come la coscienza nelle fiabe "come, lo domini?"

    "Lo domino" comincia violentemente Ugo "lo domino... perché io posso sentire questa musica! Perché posso compatire la pianista, così sublime e così poverella! Lo domino perché io so cos'è quel cappello della madre, cosa significa! Ma poi basta!" E mentre Ugo Gioia tocca il fondo di ogni rossore, alcuni spettatori seccati da un murmure estraneo alla musica e fastidiosissimo si voltano per zittire. Ma vedono che lo scrivano, paonazzo e a occhi chiusi, si alza lentamente dalla seggiola. "guarda, guarda!" si sente dire "vedi quell'uomo cosa fa!"

    Come un addormentato Ugo Gioia si porta sulla corsia tra i due gruppi di sedie, in fondo alla quale, dove le brevi prospettive s'incontrano, l'enorme pianista arrovescia nell'istrumento tutto il suo cuore come un seno antico. Lente le genti si separano dal suo cammino, passo passo. Ormai liberato dalla paura di qualsiasi inchiesta umana, lo scrivano sale sul palco, ignorando la scaletta di ferro, con un balzo un po' goffo a furia di braccia e di gambe abbrancati agli assi, tra polvere. La pianista lo vede solo ora, e si allarma; l'andatura delle sue mani sui tasti si fa perplessa, lenta; infine cessa. Lo scrivano, accennando di volersi sedere all'istrumento, scaccia col corpo la grossa fanciulla; che, alzate le braccia in un principio di disperazione, scoppia in lagrime e si nasconde dietro il grande coperchio del piano per non farsi vedere.

    E Ugo Gioia, seduto alla tastiera, si volge al pubblico e gli fa un sorriso lontanissimo. Prima di suonare tenne un breve discorso: che non conviene ricordare. (Chi l'ha sentito, spero che l'avrà dimenticato. E ciò non per le buone parole che rivolse alla gigantesca pianista sempre in pianto, e nemmeno per la confessione di aver dato fuoco al Municipio, cosa di cui tutti, la sera stessa, constatarono con i propri occhi la falsità: no, non per questo).

    Finì dicendo che avrebbe suonato lui il seguito del Concerto. E gli parve di non aver incontrato nulla al mondo che avesse la condiscendente felicità di quel pianoforte...

    Ma la musica rinfrescò e calò, poi divampò un'ultima volta sotto una campana di tenebra violacea, con i palazzi e le grotte pieni di stelle. I saltamartini facevano capolino dai ciuffi d'erba arida che sigillavano le crepe dei lastroni attorno al Teatro. Ugo Gioia cercava con la mano qualcosa nella tasca della giacca, sentì per un momento il suo cuore battere debole e calato sotto il gilè.

    Dalle foglie ferme dei platani franava la polvere del giorno. "Andiamo" disse uno dei due signori che lo reggevano per i gomiti. Il cassiere gozzuto chiamava qualcuno su per la tromba delle scale con una voce che, allontanandosi dai tre viandanti, si faceva più allegra e orrenda. ↑   

  • SASSOLINO DI MORTE - ARMANDO CADÌ

     

    Io di vent'anni: nessuna voglia di andare a bagnarmi in quella lanca dove le tre Kreinbühl spaventavano a furia d'essere desiderabili e lontane. Io che una giovane fuga dalla fornace meridiana aveva condotto fino a un passaggio a livello assai noto, e che il guardiano del gabbiotto scrutò con nostalgia di cambiare una parola. Lo pregai che m'alzasse di due dita le barriere - quel tanto da passarci sotto,trascinandomi la bicicletta sferragliante come una capra balzana che volessi piegare al mio cammino guidandola per le corna. Il guardiano si limitò a volgere la faccia verso la strada ferrata dietro il Ristorante: il treno arriva già.

    Intanto che passava, errando con gli occhi in quel paraggio conosciuto, scorsi l'insegna del barbiere, e ti assicuro fu come se la vedessi per la prima volta:

     

    Armando Cadì

     

    diceva; e c'è nulla a questo mondo che più mi ricordi le Mille e una notte di quell'insegna sbiancata dalla polvere. Quando passai davanti alla bottega fui tentato dall'aria di violetta vellutata che sfuggiva sulla strada; se entrassi? In quel momento la portiera fatta di giunchi e perle infilati si gonfiò in basso, ticchettando quella sua musica grigia; ebbi giusto il tempo di scorgere Armando che insaponava un autista e nello stesso tempo cercava di persuadersi, sfoderando allo specchio un occhio fugace, che lui poteva si considerarsi un bel ragazzo.

    Intanto non avevo posto mente a chi era uscito; invano lo cercai sullo sfondo delle porticine verdi che spaccavano i muri assolati. Non vidi che un gatto; ma allora un gatto coi fiocchi, che pareva un cane combinato in gatto tanto il suo passo s'inscriveva dignitosamente nell'aria bassa a fior di terra. Mi accorsi che un gatto così chiamava calci più di un gatto solito. Mi lasciò fulmineo che avevo già preso la mira: addio , micio!

    E andai a sbattere in una casa trovata lungo la strada che il cielo laggiù terminava, come se quel giorno l'infinito avesse deciso di cominciare in cima alla salita di quella strada.

     

    La casa dov'ero capitato era una delle tante che, imbottite di rampicanti e annegate in vette d'alberi ragnatelosi (le tegole erano di un rosso riposato), accolgono i pensionati della Ferrovia che non sanno più tanto a che punto si trovino, così smemorati della libertà come sono. L'avevo ben incontrato, il vecchiardo: sulla panca di pietra all'entrata, sbottonato, leggeva il "Dovere" col solito calcolo di economia e i consueti piccoli sotterfugi con sé stesso alla scoperta delle notizie. Una mosca nel suo orecchio si riposava tra due viaggi celesti.

    Dentro è la quiete settecentesca del miraggio d'estate, quando avete nel collo del piede intiere strade pedalate in quella giovane fuga che dicevo, e da vincere la gioventù che l'estate inferocisce - tanto vibranti che basta un po' di fresco a rapirvi, come l'idea del sorbetto vi marma la bocca. Qui fa fresco davvero; hanno accostato le gelosie e strisce di sole, come pugnali, lasciano appena vedere le cose umide e quiete della cucina. Il divano che mi accoglie l'ha rubato il vecchio da una carrozza di prima classe, quando c'è stato il disastro di San Paolo. Eh, ci si ta mica male. Un ombra sta lavando chicchere giù in fondo, nell'acquaio; se no nulla m'avrebbe già... Peccato.

    Vien fuori allora dall'ombra il tavolo massiccio dalle gambe tornite, con quella tela cerata su cui trenta mulini olandesi girano da tempo immemorabile; scorgo la linea dolce delle sedie, l'armadio con la vacca di maiolica che ci si mette il latte poi se l'alzi vien fuori una stilla di latte dal muso. (L'ho in mente tra le mani del vecchio, che quando gli scappa va latte dappertutto): Ma a un tratto la porta geme leggera come se, socchiusa, un venticello avesse cercato di sospirare dentro. Gli occhi corrono a quel rumore con più luccichio del necessario: ma è il mio gatto! Scivola in cucina soffregandosi allo stipite come se gli toccasse di sostenerlo. A calciarlo non ci penso più: anzi, senza la forza di allungargli la mano, lo invito con un paio di quegli schiocchi della bocca, simili a baci, coi quali immaginiamo d'intenerirci gli animali. Gli dico addirittura "Passa qui micio".

    Lui fa una corsettina veloce, s'arresta, fermo come un gatto di pietra. Poi mi scatta sulle ginocchia e senza l'ombra di un miàgolio con un'immobile sguardo verde, mi dà Buongiorno non riservato, un po' sornione tutt'al più.

    Dico "Ho capito. Si fan le quattro parole"?

    "Perché no. Stavo nell'orto, quando sento sbattere la porta d'entrata. Allora bisognava che corressi su a dare un'occhiata. Qui niente cani, non ci vanno al vecchierello. E io devo fare un po' tutto".

    Vent'anni, e senza ragazze: un gatto che parla val bene un sogno ch'è destino mi sia negato. Però gli voglio far subito chiaro che c'è uomo e uomo - che non mi prenda per uno sul tipo di quello che, fuori, legge il "Dovere".

    "Micio: tu saresti il fatidico gatto di casa, il Mustafà di quest'oriente paesano-ferroviario. Fai da cane, dici? Bè ne hai preso l'aria, senz'offenderti.

    Avevo sempre creduto però che i padroni ti tenessero esclusivamente a uso passatempo, ti amassero e blandissero soltanto per fare esercizio di pietà"

     

    (è bene Kant che disse... che scrisse... Eh, reine Vernunft. Imperativo categorico, una sorta di cristianesimo razionalista... Si terza tesi, giù in basso: c'è una macchia, dalla quale n'ho tratte due iniziali: S. O., la ragazza di 'sta primavera. Gli faremo veder al gattopardo che noi si capisce Mallarmé; che sopra tutto non ci prenda per un ferroviere).

     

    "Già micio, non è solo Kant che l'ha detto, anche il lobbia l'ha sempre detto: noi facciamo una buona azione se non per cavarci il gusto di dire Io eh? Che bell'azione scappa di mano, alle volte! E poi, gatto senza stivali, conosco il detto: i pascià amano le tigri, i poveri amano i gatti: i gatti sono le tigri dei poveri"

     

    (l'ha scritto un francese, questo deve averlo scritto un francese).

     

    "Dunque miciotto, t'ingrassano di primavera, e poi d'estate, fin quando viene il fresco e oltre: ma il collo non te lo tiran mai, sta quieto".

    Conclusi "Te guardiano non ti vedo".

    "Come vuoi" dice il gatto "Gioventù che ti cambia le carte in tavola... Di un po': non li stimi mica troppo, i tuoi simili. E mi fai passare per stupido; perché dovrei lasciare l'egoismo tutto a loro? Che mi tengano per una cosa piuttosto che per l'altra, non sia che per fare di me la loro buona azione di ogni giorno? Eh l'ho il tornaconto, sta sicuro. Questi della famiglia mi piacciono, ma piacere è ancora niente! Mi divertono ecco; mi divertono un mondo perché sia il vecchio che la vecchia (non parliamo della disperata figliola che fa pizzi) sono violini ai miei orecchi, violini che suonano ogni mattino, e poi al''ora dei pasti e la sera ancora suonano, estate e inverno. Non c'é che questa musica giovanottello, per chi abbia tendenza al contemplativo".

    Accidenti, chi mai la vita m'aveva fatto incontrare! Altro che ragazza.

    "Bene bravo, gatto che mi guardi. Bada però che valiamo più di te, noi due-piedi. Che, ci salti l ticchio, ti riduciamo dello spessore di uno scendiletto".

    Rise stranamente, che sembrò un gruppo di bicchieri che suonassero alla salute. "Ah, tu me lo confessi, anche"! Fece "me lo vieni a dire con tanto candore! E questo, bel figliolo - che voi se volete potete ragionare con la stanga e la scarpa - non è forse il sigillo della vostra mancanza di raffinatezza?

    Ma senti, senti quel che ti narro, e dimmi tu...". ↑   

  • SASSOLINO DI MORTE - RACCONTO DEL GATTO

     

    Gatto bianco, gatto rosso - gatto a strisce o micio di carbone - tutti nasciamo da femmina e la vita ci appare subito come una gran confusione anche a noi. Ebbi madre bella grassa, gatta pigra e posapiano che era l'unica cosa ricca in quella squallida famiglia di pescatori di fiume in cui venni al giorno. Le correvo dietro dì e notte; da lei mi veniva tanta saggezza che nessun uomo potrà mai farsi un idea; e se m'insegnava il sapore e la benedizione di Dio nella foglia d'insalata o nella ciotola di latte, aveva una sua idea degli uomini, che pose nel mio cuore quasi senza aprir bocca, lì sotto la gamba del tavolo dove attendevamo.

    Quegli sfortunati mangiavano sempre meno, limitandosi a friggere solo qualche pesce di tombino che l'odore della morte distingueva dagli altri. I pesci che, nella loro forma vagamente allungata, forma d'anima, promettevano una carne impalpabile, da sospirarsi su più che da mangiarsi (qualcuno me lo scarcassai tra i trifogli e ne so il gusto) andavano in freschi panieri in foglie di vite agli alberghi della città.

    Un giorno ci fu tanto poco sulla tavola che tutti ebbero troppo tempo di guardarsi nel bianco dell'occhio.

    "Ecco micia" disse il padrone sull'imbrunire, di ritorno dalla pesca. La prese in grembo e con tanto amore le carezzò la pelliccia. Che il padrone abbia un torto da farsi perdonare? La gatta mi osserva e i baffi non le tremano - solo l'occhio che mi strizza dice Bimbo Bimbo ma non aggiunge niente di speciale. In quel momento lei e padrone non parevano mica tanto distanti quanto a infingardaggine. I due si studiavano lentamente accanto a lunghe carezze contropelo. Ed ecco si alza il padrone sospirando, e con la micia in braccio scende giù in cantina e con gran fracasso di catenaccio vi si chiude. Un silenzio strano s'alzò per la casa; improvvisamente balzarono miagoli disperati dal basso, e sentii quel ron-ronnare strozzato di gatto che si vede perduto... Il pescatore uscì di cantina che il silenzio era tornato a posarsi su quelle povere cose. Pareva spaurito il pescatore; mi chiamò ma fuggii come una saetta e corsi a scrutare in cantina da certi sfiatatoi ingualdrappati di ragnatele in fondo ai quali in un muro d'ebano gli occhi batterono nelle tenebre.

    Meraviglia della morte, che imparai in capo ai buchi di cantina: e come un coltello può seppellire il suo riflesso nella tiepida carne, e come dallo squarcio nell'anima sorniona calan fiotti di sereno! Addio micia, quanto poco è bastato perché dalla fantasia della vita tu smettessi di giudicare ogni cosa e andassi in tanto freddo che non si pensa...

    Ma non voglio ricordare quel momento: alla sua maniera mi si è infilzato nel cuore, a resca di pece - che non te ne liberi più. Giro per la casa, salgo, scendo: ogni cosa aveva perso il suo colore, la notte poi aveva reso tutti i gatti grigi (proverbio che dite), e anche quei miseri locali avevan tanto crepuscolo da farsi cattedrali ai miei occhi. E attesi sotto il tavolo, a lungo attesi ma nessuna parola mi raggiunse, nessuna ti dico. Che notte! Venne la luna, e le cantai fin che si mise a ballarmi sotto gli occhi. Il dì seguente a sole alto dalla cucina sbuffò un odorino molto più leccardo del solito, e la padrona spellò mezzo il rosmarino e la salvia dell'orto, poi tornarono gli uomini a casa, ma più bastonati di così... Con aria delusa vennero a sbattere fino al solito tavolo che li sfamava; il piatto che venne servito, un umido della domenica, cadde sotto occhi da funerale. Lembi di carne annegavano un una mota sugosa densa di cipolle ed erbette, nei bicchieri luceva il pallido vin americano. Tutto meno che allegria c'era. S'udì il sospiro della padrona (io sotto il tavolo attendevo attendevo).

    "Servitevi allora, con Dio".

    Ma nessuno allungava la mano nella terrina, era come se attendessero un segnale, un altro segnale miracoloso di perdono e di buon appetito per cominciare. Intanto venivano i tocchi di mezzodì dalla parte della chiesa, ma impalati stavano gli uomini e davanti avevano il bianco piatto nudo sul tavolo di legno scuro.

    Ed ecco un ragazzo s'alza su a piangere, che lui non ne mangiava di quella roba, che c'entrava coscienza; e gli altri a consolarlo

    "non frignare carino, adesso anche piangere dovevi".

    Ma un altro va in pianto e al pescatore entravano le rughe in faccia fino all'osso e pareva il triplo pesante sulla sedia, fin che alzò la mano

    "prendi su, donna prendi su e porta via".

    L'umido sparì portato da mani leggere, e pasteggiarono quel giorno a pane e formaggio, ci bevvero sopra il vino e via! Che la porta gli sparava sui calcagni.

    "Perché non hanno mangiato?" No, la mia voce non va: ha la ruggine di chi non ha fatto che ascoltare. E poi, il tentativo di fingermi tonto annega miseramente.

    "Ah perché, chiedi"! (è il gatto che parla) "Va' và là che hai capito a basta, bello. Non t'ho detto che per me padrone e padrona e persino quella sventurata che fa pizzi sono violini, tanti violini che suonano! Loro mattina e sera fanno come se fossero soli, e non la smettono di suonare; ma io ci sono, eh! Son li sotto il tavolo che attendo. Mentre che i padroni a noi non possono che ammazzarci. Hai capito?

    "Eh"!... ammetto. "Però quelli non l'anno mangiata la micia".

    "E questo è il bello"! Gridò il gatto "Mai definitivi in niente, voi. Le cose a mezzo, una coltellata esitante e malpratica... e subito il rimorso, dentro, ch'è come un altro gatto che vi mangia il cuore".

    S'alzò il vento, uno strano vento d'estate che sembrò piegare la casa come un salice piuttosto che farla tremare. Dal camino caddero placche di caligine nella cenere spenta della primavera.

    "Capitai in questa casa" saltò su a dire il micio che sentivo tra le ginocchia in un peso pieno di rispetto "in seguito a un fatterello...

    Bè, in questi paraggi stava di casa un magatello che in faccia era tutta una lentiggine, e mi piaceva mica male, benché lui non mi conoscesse. A quanto pareva andava matto per leggere, se no stava seduto ore e ore sotto un lampione davanti a casa sua, muto come un sasso, e nessuno avrebbe potuto capire com'erano i suoi pensieri. Un po' quel che faccio io - salvo il leggere. Mi segui"?

    "Ah, dì pure" faccio.

    Il gatto mi guardò e il vento scemò improvviso. Una nuvola passò sul sole e l'ombra ci strinse un po' di più. ↑   

  • SASSOLINO DI MORTE - SECONDA STORIA DEL GATTO

     

    Figurati che quella volta, fuggito dagli assassini pescatori, erravo qui fuori e mi scappò di fare una dormita. La scala era lì davanti a me - la scala che mena giù in cantina e nella stalletta della legna. Man mano che scendo mi vengono incontro parecchi colpi sordi, disuguali, che parevano mucche incatenate che scalciassero. Guardo dentro nella stalletta... C'è l?i quel magatello che ti narravo, e né leggeva né pensava; spaccava legna il marmocchio, con una scure paurosamente affilata. Sai, la gente qui, i suoi nonni, gli avran proibito di toccare quella scure... O forse a lui sarà piaciuto di spaccar la legna per far vedere che sapeva farlo.

     

    "Aspetta un momento, micio" faccio io "dì un po' com'era quel ragazzo".

    "Magro con le pezze nei calzoni. Delle lentiggini t'ho già detto: ma tanto fitte che a due metri ti pareva un pellirossa. E i capelli, suo padre gli faceva ogni tre sabati la pelata a zero".

    "Ho capito".

     

    "Ora" seguita il micio "spaccava il ragazzo i ceppi a gran colpi che facevan volare stellette di legno fin sotto il soffitto. Lui s'accorse di me solo quando, stracco e caloroso, ebbe dato della testa in una vasta ragnatela. S'è messo allora a disseppellirsi dai tenui lembi polverosi, e nello stesso tempo si tamponava col fazzoletto bave di sudore e, come fanno questi magatelli, col naso e gli occhi era tutta una ginnastica (aveva quel che si dice il "ticchio nervoso"). Poi scava una mela dalla paglia dove stavano, su un tavolato, a maturare. Fu mentre mordeva la mela che mi scorse.

    Io non ti so dire cosa gli è saltato in testa. A quel ragazzo dovevano aver detto un'idea in cui voi curiosamente credete come nel Verbo, ed è che se a un gatto si getta un sassolino sul naso, quel gatto è bell'e fottuto, perché c'è una venetta o un nervo che salta e noi si resta lì stecchiti. Quel giorno lo sa il diavolo chi ispirò al magatello di fare la prova con me. Cominciò a tirarmi addosso mezza mela, ma io non mi mossi dallo scalino dove m'avevan scoperto i suoi occhi; la mela rotolò lontano. Eh, come avevo capito che lui voleva far l'esperimento del nervetto, dici? Dal modo con cui cercava in terra trucioli e scaglie di legno lo capivo, e come me li gettava sul naso, socchiudendo gli occhi come fa l'uomo che prende una misura o la mira di un bersaglio. Schermirmi era facile: talvolta bastava solo abbassare la testa o piegarla di lato; il truciolo mi frullava all'orecchio senza toccarmi. Ma anche quando una scaglietta mi colpiva era meno solletico di quanto mi faccia tu ora con la mano.

    Pian piano però il ragazzo andava imbestialendosi nel suo trastullo. Mi attaccò con legno più grossi. Ma vide che era troppo difficile non solo farmeli cascare sul naso, ma anche solo sfiorarmi il corpo. La sua ira squillava come una tromba. Balzò sulla porta, la sigillò e mi venne addosso a mani protese, come per afferrarmi. Un ragazzo come lui in quel momento è tale da far paura a qualsiasi gatto della terra. Lo sfuggivo di misura, che quando lui saliva ciecamente la scala io gli scendevo tra le gambe, o saltavo sullo scalino più alto se lui rotolava giù come una tigre.

    (Intanto io che ascoltavo gli andavo carezzando il muso, al micio, con un gesto dal quale da un pezzo il mio cuore, gelato, s'era diviso. In quel momento la mano mi si arresta su una piega della pelle che non sembrava una piega ma una profonda cicatrice, in cui ci stava di traverso un dito intero).

     

    "A un dato punto" (è il gatto che continua) "il magatello mi venne addosso con un tal pezzo di legno che se mi prendeva mi uccideva. Non parliamo delle mele, che ogni mano momentaneamente libera pescava dal traliccio e mi faceva piovere attorno. Poi brandì una stanga troppo lunga: non mi poteva colpire, scagliò il bastone contro il muro..."

     

    "Ebbene, vado avanti io con la tua storia, micio; te la narro io adesso: quando proprio il magatello non ci vide più ti restrinse fin sulla scala, ti pestò la coda con una scarpata, ti fece rotolare addosso il ceppo, ti bersagliava con ogni cosa, del tutto impazzito; fin che gli occhi prima delle mani gli corsero sull'accetta, le mani afferrarono quel manico lustro e l'argento del taglio volò su di te, te lo sentisti venire nella vista, vero micio? Ma solo di sbieco ti colpì - tanto da lasciarti questa virgola che porti nella fisionomia...

    E allora avvenne qualcosa che supera ogni racconto: tu povero gattino ferito e perseguitato (e dicevano che un sassolino o una festuca che ti battesse sul naso t'avrebbe freddato!) ti stirasti fino a diventare due volte lungo e due volte sottile, e col pelo irto, sanguinante e allucinato ti sei proteso verso il magatello e l'hai stregato con un urlo sovrumano, un miagolo terribile che accese in lui un tremito sfrenato.

    Hai poi colto l'istante buono per volar fuori dal finestrino...".

    Ma ormai parlavo a nessuno nella quieta cucina in ombra. Il gatto non c'era più. Senza far rumore, come un uomo sonnambulo mi levai dal divano di prima classe e uscii dalla stanza. Prima di aprir la porta d'entrata (sopra e sotto correvano due spade di luce in cui ardeva tutta l'estate) scorsi ancora il mio gatto, sul davanzale d'una finestrella che dava su stanze elevate e remote.

    "Ancora una parola. Dimmi tu allora, gatto dei gatti: è vero che vi si può stecchire voi felini con una pietruzza sul naso? Eh?"

     

    "Pietruzza d'osso
    sassolino di morte
    tirami addosso
    che nel cuore mi avrai"

     

    cantò il micio con una vocina fioca fioca; e fu la prima voce di gatto che ebbe.

    Ma io lo sentii appena, fuggendo fuori nell'alto sole annoiato. E mio nonno (lo vedevo dalla bicicletta che facevo volare) non badò che dal suo orecchio la mosca s'era inabissata nel cielo. In pugno, come una bandiera sotto il vento che s'era ancora levato, gli sventolava il "Dovere"; mezzo alzato sulla panca di pietra, aveva negli occhi tanta meraviglia che io me ne andassi, così, senza nemmeno salutare. ↑   

  • INTERNO DOMESTICO - Prima parte

     

    Il padre aveva l'abitudine di comportarsi assai severamente durante l'ora dei pasti. Che erano distribuiti lungo la giornata secondo un ordine quasi soprannaturale, poiché nemmeno lui stesso, signore e padrone della casa, osava intralciare quest'ordine e spostare, sia pure per forza maggiore, l'orario di mettersi a tavola.

    La mattina lui era come se non mangiasse: pesantemente i suoi lo sentivano traballare sul suolo di legno della stanza, soffiando e sospirando nel mettersi i panni; quando poi si sentiva la porta del comodino aprirsi con uno sbuffo d'aria, voleva dire che l'uomo riponeva in fascio la camicia da notte, i calzerotti di lana e la cuffia calda con il fiocco in cima, che gli erano serviti la notte. Nell'uscire, il suolo instabile della casa povera oscillava, e qualcosa tintinnava tremando, specchiera o brocca di maiolica sul marmo del lavabo. Lui era tanto pesante.

    Uscito di stanza, tutte queste piccole cose domestiche sembravano così sue, così legate alla sua presenza, che una sorta di spavento prendeva madre e figlio che si ritrovavano soli accanto a quelle cose. Era lui e la madre che restavano; sentivano l'uomo armeggiare in cucina, aprire tiretti e spostare seggiole. Ogni mattina il destino gli faceva sfuggir di mano il corno delle scarpe (e si che lui le portava alte, e lavorando di mani le si sarebbe potute calzare così senza corno); l'oggetto, di ferro smaltato, saltellava sulle pianelle marmoree del suolo con capricciosa allegria. Allora il padre mormorava invettive, perché quel suono aveva già troppe volte svegliato il padrone di casa al piano di sotto, e quello si rifaceva in tante piccole vendette nel cuore della notte, suonando uno sgangherato fonografo o rovesciando maledizioni sui famigliari a ore tarde, quando il pensiero di qualcuno che soffre per rabbia allontana il sonno e fa battere il cuore.

    Raccolto il corno da terra, il padre camminava in punta di piedi, e non fu mai dato di sapere se lui facesse o no colazione. Il ragazzo credeva di no - a parte qualche morso nauseato nel lardo o in quel Piora ch'era stato un disastro perché sotto la crosta della forma era tutto pomellato e marcio.

    Discese le scale con cautela, si sentivano i suoi passi sulla ghiaia del giardinetto;la bicicletta veniva tirata fuori da lavatoio, stecchita dal gelo e senza la forza di risuonare ai colpi che la fretta dell'uomo le faceva battere contro i muri; da ultimo il cancello di legno sbatteva con tanta legnosa decisione che lo schiocco riempiva tutta l'alba e seguitava a risuonare nella mente dei rimasti, lì nel letto, come se tornasse a ripetersi. Invece non era che il battere di un ricordo, tra i diradati sonni tiepidi del mattino.

    Allora albeggiava già a precipizio, con grandi nuvole a strisce messe di traverso nel cielo; e quel gramo sogno che si riacchiappava aveva odor di vacanza, presto disilluso dal richiamo rapidissimo e quasi distratto che la madre rivolgeva al ragazzo passando leggera.

    E va e va, vien mezzodì con tutto il risveglio del mondo e i rumori del lavoro, da presso e da lontano, e i pensieri dei lavoratori che di mattina son più pericolosi. Ma il rombo del campanone, alle dodici, rende zoppi i rumori e li dirada; resta nel silenzio improvviso il cuocere delle donne, e fumo nel cielo, e valanghe di gente sulla strada, a piedi e in bicicletta.

    La madre alza la faccia delle padelle e chiede:

    "È già arrivato l'Ingegnere?"

    È il pensionante. Gli han dato la stanza d'angolo, con la mobilia di noce chiaro ereditata dal nonno in testamento. L'Ingegnere è già là nella stanza che cammina su e giù. È il segnale che l'ora è giunta.

    Allora la bicicletta del padre, con la catena che penzola e scorre mormorando, annuncia che tra poco si mangia. Il padre entra in cucina col cipiglio del lavoro sofferto, mette i guanti sopra la radio, al posto solito; poi s'avvicina alla stufa e applica le grosse mani gelati al tubo caldo e inargentato, sospirando con faccia dolente e lagrime di freddo agli occhi. Lui ha il freddo facile come altri il pianto.

    "Ho i piedi che parlano" dice sempre. I piedi parlano quando sono di ghiaccio: è così che l'intende.

    Allora, che fare? C'è bene il tavolo da guardare, che va coprendosi di vasellame; ma non basta. La madre? Lei allinea i piatti secondo l'usanza appresa col latte, avendo cura di mettere al posto dell'uomo una chicchera invece d'un bicchiere, come lui ha stabilito. La chicchera sembra fatta su misura delle sue labbra, di terracotta com'è, larga, col manico bianco.

    "Va a chiamare l'Ingegnere" dice la madre. Ma quello, come se stesse origliando di là della quadrellata che separa la cucina dalla sua stanza, appare3 salutando lieve, e va a lavarsi le mani nel lavandino.

    Al ragazzo pareva che mettersi a tavola dovesse essere esercizio d'allegrezza, una piccola festa tra le poche della giornata; ma senza sapere bene perché il momento gli riesce sempre un po' imbarazzato e sposta la seggiola augurandosi che nulla avvenga di spiacevole. Ma il pranzo procede in silenzio. Quando i suoi occhi incontrano quelli dell'Ingegnere, si svolge una specie di intesa impacciata, anche se non di rado tra i due corre una sorta di scialbo e fuggito sorriso. Ma il padre apre la bocca. È il momento del discorso.

    "La cagnàra"! Esclama. A quella parola che fa parte di certi sui tipici modi di dire, e benché veda la madre muovere la fronte e l'Ingegnere fare la faccia di noia, il cuore del ragazzo si riscalda. È sempre meglio del silenzio.

    "La cagnàra"! Ripete il padre: e alza gli occhi come per leggere sui volti degli altri l'effetto di quella parola; poi, come intimidito, li arresta sul litro che è sempre posato sulla tovaglia più vicino all'ingegnere che hai famigliari.

    È sèguita

    "vedete questo pugno? Posso sconquassare il tavolo, se n'avessi voglia"! (hanno detto che il pugno di qualsiasi individuo gli è grande come il cuore. Allora il cuore del padre dev'essere come quello d'un toro, di grandezza: chè ha pugno massiccio e dita incallite come un gigante).

    "ma stavolta sta quieto, lobbia!" continua "inghiotti anche questa! Perché è solo in via provvisoria" si affretta a spiegare, benché nessuno si sogni di chiedergli cosa significhino le sue parole "non son uomo da star sotto a qualcuno, io! Ma in via provvisoria, dico, e per questa volta, voglio provare a inghiottirmela giù, zitto zitto". L'uomo beve una chiccherata che gli va di traverso. Tossendo grida:

    "Una simile calùsia, montata con strafori e rigiri, mai s'è vista al mondo! Ma qui c'è pugno per i loro denti" aggiunse, alzando come prima nell'aria la manaccia che apre e chiude tra boccette di muscoli" e tra non molto... Non posso dirvi di più" aggiunge a precipizio, vedendo che l'Ingegnere si è alzato "sarebbe voler percorrere le cose...

    E specialmente a te io dico" - e guarda il ragazzo che stranito alza gli occhi - "a te che devi imparare a tacere: che nessuno, in casa o fuori, abbia a sapere cosa c'è in aria...". ↑   

  • INTERNO DOMESTICO - Seconda parte

     

    Benché le parole non andassero a lui, l'ingegnere fa un cenno risoluto di diniego. O accetta di essere segreto, o respinge la raccomandazione. Rimettendo la sedia sotto il tavolo saluta rapido e se ne va.

    Allora il padre tende la testa pesante a sentir se ogni rumore è svanito. E quando è ben sicuro che l'Ingegnere, richiusa la porta della sua stanza, è già in fondo alle scale, in viaggio verso il Caffè, volge lentissimi gli occhi sui suoi due di casa ed esplode

    "Voi"!

    Ma subito, senza che nessuno gli dica nulla, spegne la voce fino al sibilo.

    "È così che mi si ascolta? È questa la maniera di accogliere una cosa tanto importante? Bella figura, di fronte all'Ingegnere! Che lui è influente, e coi suoi crumiri potrebbe dire più di una parola!

    Ma sentite: rincaso con in gola la voglia di dire tutto, di raccontarvi - ma si - come si fa tra la brava gente, il caso che mi preoccupa... e ho l'aria di parlare al muro! Vi degnate si o no di ascoltarmi? Val proprio la pena di tenersi in cuore una confidenza, uno sfogo... Tutti, nel mondo, hanno la loro famiglia per le pene e le gioie; io - e pensare che non ho che pene da narrare - nessuno mi sente...".

    "Ma no", continua a ripeter la donna facendo su e giù per la cucina intenta a specchiare "ma no... Cosa vuoi che si dica noi...".

    "Voglio si" decide il padre. "Ci son tante vie per incoraggiare chi si vuota il cuore... so ben io: uno sguardo, una voce... Cosa dirà il Signor Ingegnere?"

    "Tu, Smortino" domanda l'uomo al ragazzo "va di là, adesso. Oplà"!

    Il ragazzo esce. Va, come sempre, nella stanza dell'Ingegnere, tra i mobili chiari pulitissimi e lo specchio del lavabo, lustro e rigido che ci si vede riflessi già fantasmi.

    E si guarda in quello specchio, il ragazzo, sorridendosi timidamente, con sottili allusioni: ma il fantasma dello specchio riflette una smorfia. Allora s'avvicina al vetro: ogni tanto alza la mano nervosamente a sciugar via il velo di umore che il fiato allarga sul cristallo. Così grande la sua faccia gli appare! E i capelli a spazzola... (Che mania, tagliare i capelli a spazzola, come i signori stampati nei giornali, a un ragazzo! Gli fa una faccia sbigottita, gli invecchia lo sguardo. Come se non bastassero già i gonfi sopra gli occhi e la bocca troppo larga a imbruttirlo). Ecco, così come adesso la faccia non gli è mai stata riflessa dallo specchio. Sembra una luna triste: e quel gioco di occhi naso e bocca, uno sopra l'altro, ha l'espressione dei parenti e dei cugini, una specie di stampo molle e grasso, che serve a distinguere la famiglia dalle altre.

    Ma al di là della quadrellata s'alza la voce del padre.

    "Capito"? Dice. "Se viene ancora digli di aspettarmi - che aspetti un po' anche lui, non solo io... E dagli pure un bicchiere di vino, che lo assaggi. Tanto se ha da essere imbrogliato... Stamattina è venuto nessuno"?

    "Nessuno" risponde la donna.

    "Neanche il Tedesco"? Insiste il padre "no? Neanche lui? Ma qui" esplode sempre in registro fischiante "qui tutto va in malora! È la miseria, se continua così! Ah, e io con i miei pensieri, la mia ansia... Fuori: disastro! Dentro: disastro! È la camorra del destino, capito? Su, dì qualcosa: dammi ragione, almeno tu... Che uno può inghiottire fino alla morte, in fin dei conti! Ah, se il Rezzovaglio... Si si, lui, che ci siamo sposati insieme - ti ricordi? Lui che gli ho venduto le seggiole a prezzi da ladro, che abbiamo aiutato, con consigli e anche con qualcosa di più materiale... Ti ricordi si o no?"

    "Mi ricordo" dice la madre. "Mi ricordo... Ma tu, non t'affannare".

    "Al diavolo"! Grida l'uomo "ebbene il Rezzovaglio, quello li, carogna più carogna della terra... te l'ho taciuto (anch'io ho la mia fierezza) ma... Sai che l'hanno nominato revisore"?

    "Revisore"! Grida la madre, ardente "revisore... Ma allora...".

    "Eh tu capisci" dice il padre con una sorta di felicità "tu capisci... Non sei mica stupida, tu, in certe cose. Cosa vuoi che ti dica, ancora? È il revisore del comune. E da allora non mi saluta più! Non c'è che i revisori per controllare certe liste, non so se mi spiego...".

    "Sssst" sospira la madre.

    "E ora tu vorresti che non dica più 'la cagnàra'? Hai un bel dire! Voi siete donne - tutto facile, tutto semplice. L'uomo fatica, sgobba, si abbassa - fa di tutto insomma! - ma per provvedere alla casa, ai suoi, com'è giusto. Ma... e lui, quest'uomo? E il suo cuore, si, perché cuore ne abbiamo tutti, anche se...

    Bè, che non senta lo Smortino" conclude smorzando ancor più la voce "che non senta, per carità. Già mi guarda con occhi che non sembrano di me e te... Alla larga da certi pensieri".

    Ma lo Smortino non li sente. Tra la mobilia di noce chiaro, nella stanza dell'Ingegnere, è li sempre più tramortito. E pensa che forse lui è un trovatello, abbandonato in un canestro da genitori adulti e capitalisti, per tutta una storia misteriosa; lui che non ne ha colpa è stato abbandonato, e questo padre deve averlo trovato andando in bicicletta, ai tempi, in un portone mattutino illuminato dal temporale.

    Allora il ragazzo s'avvicina allo specchio ancora di più, e sempre con gli occhi fissi profondamente in quelli del suo fantasma, con il cuore che trema di sfrenata tenerezza, applica le labbra al freddo cristallo e dà un bacio lungo, tra brividi, alla sua immagine che anch'essa lo bacia. ↑   

  • STORIA DEL GALOPPINO TRISTE - Prima parte

     

    Accadde una volta che sulla via dei Mulini sbucò un immenso uomo intabarrato. Portava un berretto di quelli affrancati davanti con una molletta, che sempre si accompagnarono a robuste mascelle e a sguardi malandrini nell'ombra della testa. E così alcuni bambini che sguazzavano tra le pozze della recente pioggia stettero a guardarlo per un gran tempo, chiedendosi se dovessero fuggire. Erano forse così gli uomini selvatici?

    Il gigante infatti scrollava le spalle come a terminare un ragionamento fino allora dubitoso, e alzò anche le braccia al cielo un bel momento, allargando il mantello a campana e mostrando, sotto, abiti troppo poveri per farne uomo di favola. I bambini della strada ne seguirono i passi con gli occhi poi si rivolsero all'acqua delle pozze tornata tranquilla e ne lambirono lo specchio con le mani. Carezzando l'acqua furono di nuovo molto oltre quella strada - o come prima di arrivarci, là, nel pomeriggio appena cominciato.

    L'uomo non si era accorto di loro. Sbucò in un'altra strada, traversò l'aria salata della "Premiata conceria di Pelli", fu alle villette disseminate tra gli orti dove qualche pensionato, senza far più rumore di uno spettro, piegava frasche con aria svogliata. Non qui, non qui (il suo pensiero era a chilometri da lui, vispo e insopportabile). E nemmeno laggiù dove i pini nereggiano attorno a finestre sghembe che devono dare in un atrio, o arieggiare uno scalone. Tenne fermo con le due mani, per via del vento, un foglietto di taccuino, sul quale, a tratti fini di matita, stava schizzato un itinerario assai vago.

    "La Benedetta"? No, siamo fuori di strada. Quella è già oltre lo stradone. Da dov'era lui la si vedeva, giù nella vaga piana, con il tetto spiovente che diceva, a mezzo di tegole più chiare, il suo nome "La Benedetta".

    Per chi stava scritta quella parola? L'uomo gesticolò - ebbe un fremito svogliato di rammarico verso il padrone di quella casa. Ma si disse che forse gli uccelli avrebbero potuto leggere quella parola, gli uccelli e le anime. Il cielo doveva saperla benedetta, quella casa. La terra no, che l'aveva circondata di grami giuncherelli e ne aveva cominciato l'assalto, partendo dal fondamento, a mezzo di grandi macchie umide.

    Allora gli occhi ondeggiarono da quest'altra parte, verso monte. L'uomo affondò le mani fredde nelle tasche, raspando contro il foglio dello schizzo e capitando col dito in un buco che c'era nel pastrano.

    Chissà se avrebbe menato le mani. Forse no. Talvolta non era necessario; e sempre in quei casi gli pareva di non aver compiuto fino in fondo la sua missione, o provava la delusione della vittoria raggiunta troppo facilmente.

    Aspetta: da quanto tempo non menava più cazzotti a nessuno? Oh da una settimana forse: forse da più tempo. Oh che tutti diventino conigli, adesso? Che sia per questo? L'uomo minacciò il cielo con pugno pesante; questo no, questo qui non s'intenerirà mai. Perché si parla di lotta, allora, nella vita? Di fronte han da prendersi gli uomini: con la faccia chiara nell'offesa, e piedi saldi - niente paura. Lui almeno la vedeva così, e non aveva mai avuto di che pentirsi. Ma vediamo un po', chi fu l'ultimo a ricevere la lezione? Quel misterioso, si, Carlo Brontalli, alla Ferrovia? C'era ben stato un pugno; ma inutile, perché i compagni l'avevano accolto fra le braccia al semplice gesto, là in quella sera di luna che faceva tanto freddo e poi è passato il treno e tutti si stava sull'argine e non si aveva più voglia di continuare... Prima, non c'era che la scena del Cinema, nel ricordo: ma quella valeva almeno per due...

    "Non pensare, non pensare!" s'implorò il viandante. Possibile che non si possa andare così, a cercare un individuo, come tutti fanno, senza strologare i fatti che poi avvengono sempre in modo diverso?

    E poi, che bisogno c'è di menarle ad ogni costo? Tanto meglio se tutto si mette a posto senza picchiare.

    Ora andava l'uomo tra aperture arcuate di case di campagna e col suo passo ondeggiate e solido scavalcava pozzanghere lunghe talvolta fin due metri, senza incontrare nessuno. Le gemme sulle piante erano come malate, e ovunque si vedevan per terra fasci di ramaglie che i paesani avevano segato o tagliato dalle piante. Il meriggio era pieno di echi, e i suoi passi, quando battevano sul duro, rimbombavano a monte come schioppettate.

    La montagna si fa subito scarna appena fuori di città; elevate muraglie di roccia simile a fango s'inabissano fosche lì sulla strada di Arbisio, e uno si sente piccolo, passando e un sasso o un blocco di terriccio franando dall'alto, potrebbe incollarlo sulla via o sbalzarlo oltre l'argine: dove l'uomo sentiva, anche senza sporgersi, lo sbricco che dava sulla rabbuiata pozza del fiume.

    Stalle pigre ombravano appena la piana che veniva oltre le roccie. Passò il Postale, gran diavolo giallo tutto lardellato di fanghiglia.

    Ed ecco Arbisio: paese che pareva ancora in pioggia - da quella parte il sole non arriva che a tarda primavera. Nude case si inerpicavano fino ai castagneti, i camini fumavano e paesane imbottite di scialli correvano da porta a porta con oggetti grevi tra le braccia. Il postale era lì fermo sulla piazzetta, e ne scendeva proprio allora il Signor Curato con una valigetta.

    Il gigante s'era accorto che il foglietto con lo schizzo era sfuggito dal forellino nella tasca. Chiemò avvicinandosi con una piccola corsa "Voi, Signor Curato che conoscete tutti - lo sapete dov^è la casa di tale Geremia Pedroli, di professione giornaliero e così?"

    "Oh si si" disse il curato; e ripetè "Geremia Pedroli, di professione manuale (che io sappia): eccola lì, la casa; ci siete mai stato? Ma voi... sapete che...".

    "Niente, niente", disse il gigante "vi ringrazio Signor Curato; quella è la casa, va bene, è proprio quella che cercavo". Andò da quella parte, e come si fa in campagna entrò senza picchiare. Un lungo corridoio gli stava dinnanzi, in fondo al quale la luce violenta di una finestra ad inferiate feriva la vista.

    "Olà, di casa" chiamò l'uomo; e aggiunse "c'è nessuno qui?" Una vecchia che non aveva visto si disegnò contro il chiaro della finestra. "Ssssst" sibilò; e fece segno di no con un dito della mano.

    "Ma qui"... L'altro s'apprestò a urlare, già in bestia; quando s'aprì una porticina ed un uomo secco e altro, in panciotto, venne lentissimo nella luce della finestra e disse "Eh, voi, che fate in questa casa?" Sembrò riflettere. Poi disse "Ah, v'han già trovato"?

    "No" disse il gigante "forse mi prendete per un altro. Nessuno mi cercava - perché dovrebbero cercarmi? Sono venuto da solo, perché non crediate che...".

    "Ah, non siete l'Ispettore?" Via, allora! Via! Via!" esclamò il secco. E seguitò a dire, rabbiosamente "Via"! Quasi tra sé, anche quando il gigante corrugò perentorio le sopracciglia e disse con voce di tuono "Basta! Siete o non siete il nominato Geremia Pedroli, di professione...". "Si, si" disse Geremia, "son quello - almeno non lo fossi! Ma ora via, fuori dai piedi!"

    "oh no" il gigante parlò con umore "non si dice al Tromba via via come a un bambino!Olà, c'è un posto in questa casa dove si possa parlare? Parlare, si prima...". L'uomo secco a nome Geremia venne al gigante e, fatto che a questi parve stranissimo, lo prese per mano e gli accennò con la testa di seguirlo. Passarono dalla porticina di prima, e eccoli in uno stanzone immenso appena imbiancato a calce in cui nulla c'era, salvo alcuni attaccapanni in forma di corna di camoscio; ma non c'era appesa che una giacca di lingèra. Il gigante che si era detto Tromba inoltrò perplesso dietro l'altro, sentendo nella sua mano potente le secche dita del padrone di casa. Lo stanzone non aveva che due finestrelle dalla parte di città, anch'esse ingabbiate tra fiori passi.

    Geremia frugò in uno sgabuzzino e portò fin nel mezzo della stanza una panca di legno. "Sediamoci allora" disse. E aggiunse "sono seduto qui da due giorni, uomo". Sedettero uno accanto all'altro, così che non potevano vedersi in faccia senza stortare la testa. ↑   

  • STORIA DEL GALOPPINO TRISTE - Seconda parte

     

    Disse il Tromba: "Qui fa fresco mica male. Non avete legna? Siete in campagna, mi pare...".

    "Legna" esclamò assorto Geremia, "già le selve...". Poi abbassò la voce e parlò così, come mormorando: "Sono dei figli, quelle. Che ci resta mai, all'infuori delle selve?"

    "Oh, tante cose" disse il Tromba. "Guardate me; sto in una casa dove non c'è neanche una margherita di mio. Eventualmente ci sono i parchi comunali, che diamine!"

    "Non m'avete capito, delle selve".

    "Ma si" disse il gigante, "fa più male il freddo in casa che le selve di fuori, no?"

    "Adesso non più" disse Geremia. Aveva le mani sui ginocchi e i pomelli gli luccicavano con quella pelle grinzosa e delicata che li copriva.

    "Sentite" si decise il Tromba "non facciamo scherzi! Voi, se sono bene informato, siete quel tale dello schiaffo: qui è meglio mettere le carte in tavola".

    "Ma si. E cos'è uno schiaffo? Una ferita a morte, ecco cos'è uno schiaffo. Però è sempre meglio di una malattia!"

    "Oh vedo che ci intendiamo" disse il Tromba con una specie di gioia.

    Lo stanzone non era più così deserto. La vecchia di prima era entrata per la seconda volta e frugando nello sgabuzzino s'era diretta all'uscita con panni ampi come tovaglie.

    "Allora" (il Tromba andò diritto allo scopo) "la ritirate quella denuncia?"

    "Per quella" rispose Geremia, "c'è sempre tempo. Che fretta. Cos'è un giorno più un giorno meno?"

    "Vi dico che la ritirerete" urlò il gigante con voce di temporale. "È nel vostro interesse" proseguì più basso, "su, cercate di capire!" (gli pareva che Geremia fosse in certo qual modo rapito, che non prestasse la dovuta attenzione) "non sapete che il vostro gesto può fare del male a parecchi? A degli innocenti?"

    "Oh, e chi non lo è?" gridò Geremia. Ma ricadde di piombo nel silenzio.

    "Guardate" seguitò il gigante "che ne direste di una piccola intesa? Sì, parlare un po', ecco. A meno che (ed è ciò che temo) altre ragioni vi faccian testardo...".

    "Sì, proprio così", disse Geremia.

    "Badate, uomo, che giocate un brutto giuoco" disse torvo il Tromba "voi ne fate una questione... Vediamo, su, come la pensate. Vediamo di che colore siete. Ce l'avete o no il Crocifisso in casa?"

    "C'è, solo che ha cambiato il posto".

    "Oh, questo poco importa" disse il Tromba, "fatto sta che ce l'avete: ordunque, in via di politica, si può supporre il colore della torta, ormai... È il vostro pensiero, eh? Pèpiatto! Mi par di comprendere...".

    "ma io" disse il secco "sono quel che sono, e non ho bisogno di dirlo. È proprio questo il momento di venirmi a seccare... Sono ancora dietro con le elezioni?"

    "Piano con le parole del seccare", esortò il gigante irrequieto. "Giù la voce se non volete precipitare le cose... Ma voi, così come siete, certo che non la potete capire la grandezza di una idea! Nero, nero come la notte siete, va'...".

    "Che nero! Per chi mi prendete?"

    "Ci vuol poco a capirlo, coi crocifissi e così... E il progresso? La vita insomma, con tutto quel che c'è sotto-sotto... Ma lasciamo andare" concluse, "è come parlare al muro".

    Guardò il muro, Tromba, così dicendo; e nel silenzio che seguì corse con gli occhi su e giù per le pareti. Vi scorse, alla fioca luce della sera, parecchi segnacci che parevano fatti con un tizzone spento; altri, rossastri, con un pezzo di quadrello: con stupore andò scoprendo una quantità di falci-e-martello, grandi e piccoli, a un metro da terra.

    "Cosa sono quelli?" gridò afferrando il padrone di casa per il panciotto, "cosa significa? Ci siete, eh" Vi tengo ora! Ah, e io stupido che non capivo!" Gonfiò i pugni e s'alzò.

    Geremia ricadde stanco sulla panca. Nel suo magro rapimento non lasciava capire quel che avrebbe fatto poi. "Come vuoi" disse debolmente. "Spaccatutto stava qui a passare il tempo... Non vedi che c'è niente di niente in questa stanza?"

    "Oh niente" disse il gigante "lo dici tu...". Continuò, dopo un ingorgo tale di parole e di indignazione che dovè fiatare con tutta la bocca. "Ci sono segni, qui, che l'animo umano si ribella di vedere... Farabutto", gridò infine, "sono questi i tuoi pensieri?"

    "Basta, andate" implorò Geremia "che pensieri volete che si abbia, alla sua età! E noi tutti, ormai! Era Spaccatutto con gli altri mocciosi...".

    "Adesso capisco la question dello schiaffo" disse il Tromba "e della denuncia e così - l'odio insomma! che voi avete fino in fondo al cuore, voi e quelli della banda! Falce-e-martello...".

    "Per lo schiaffo" disse Geremia, "tu sai... noi delle terre si è così, che s'inghiotte un rospo dietro l'altro; ma schiaffi in faccia... l'è duro da portare a casa".

    "Io non sto a vedere" disse il Tromba "fino a qual punto tu quello schiaffo gliel'hai cavato col tiratappi. Che io sappia, un Capotecnico e così non da schiaffi ad uno se quello non lo esaspera e così... E allora bisogna proprio essere della banda per picchiar denuncia come se niente fosse!" "Va bene" aggiunse ridacchiando con intenzione, "va bene che lui, il signor Capotecnico, Illà! Con una parola vi manda tutti in galera; ma sta male capisci? E può diventar grave per tutti il fatto che tu, benché schiaffeggiato a ragione, osi alzare la cresta impicciandone la giustizia. Perciò ti dico che tu stasera metti la marsina e vieni con me dal procuratore a ritirare la denuncia!" "Stasera poi no" proruppe Geremia "non contarci! Piuttosto morire". Il gigante sentiva che si era ormai al momento buono. ↑   

  • STORIA DEL GALOPPINO TRISTE - Terza parte

     

    "Ah tu dici che non verrai" parlò deciso chinandosi ad afferrare la panca "tu non verrai, eh?" E alzando la panca di colpo credeva di far cascare l'altro a tradimento per terra; ma il secco si drizzò traballando un poco, si diresse rapido allo stanzino, frugò brevemente; e voltandosi puntò sul gigante il suo moschetto di soldato che gli era scivolato di mano quasi per miracolo. Girò lesto l'anello.

    "Guarda" comandò, allungato il dito ossuto a una delle finestre. Fuori gli alberi stavano immoti nella sera; tra di essi s'alzava un angolo di casa, con un comignolo sul quale un ometto di latta svergolava talvolta, rugginoso, sotto qualche fiato di vento. Dietro al Tromba scoppiò una detonazione così improvvisa che il gigante se ne sentì percorso fin nel cuore; e sul pavimento dell'immenso stanzone s'arrotolò una lenta aria di polvere. Dal vetro scheggiato della finestra si vedeva l'ometto del camino, colpito dalla palla, pendere slabbrato, come una foglia secca.

    "Ah fai sul serio" mormorò il Tromba; e sporgendo le sue manone in avanti come a implorare, venne avanti silenzioso per qualche passo, coi suoi occhi malandrini sotto il berretto. "Non c'è da scherzare" si disse cercando scampo. (L'altro aveva fatto brillare la cartuccia lontano e teneva di nuovo la morte sotto il tenero del dito). Ed ecco il gigante sorrise largamente, per mostrare di non credere a quegli spauracchi. Ma dentro tutto gli ballava in una paura fino allora insospettata. Sorrise: e allora alla porta d'entrata, li fuori, balzarono alcuni colpi terribili nel silenzio, mentre nello stanzone venne china e sinistra la vecchietta del corridoio.

    "Geremia" pianse "tu, tu Geremia, che Dio ti veda nel cuore... Non basta, ancora?" e accennò con la testa disseccata degli anni, in cui il mento poggiava sul fagotto del petto, verso il soffitto. Nessuno battè più alla porta.

    Nel silenzio greve il gigante stava a guardare Geremia secco e lungo che stringeva il fucile e tamburellava con le dita sul calcio, fissandolo... Allora l'uomo sentì che si stava mormorando, o meglio capì che già prima quand'era entrato e mentre parlavano s'era sentito mormorare, ma senza farci caso; e sentì mormorare molte voci, e volle partire lontano da quella casa. E allora l a morte gli venne tanto vicina da raggelarlo.

    "Geremia, Geremia" pianse la vecchia "non mi farai questo male! No, tu non me lo farai!"

    "Ma lo ammazzo, mamma!" esclamò Geremia "ma si, lo inchiodo lì dove si trova... Vecchia, lascia che lo inchiodi che Dio mi perdoni...".

    "Dio" pensò nel suo sbigottimento il gigante, guardando rapido ai segni delle pareti "ah si, Dio! Si, Dio, Dio!" gridò senza più frenarsi - tanto la parola si gonfiava in lui "Dio! Se è il momento - che tu mi guardi!" Nella paura atteggiava il volto a pietosa implorazione, sentendosi nella testa un gran vento e la fronte spianarsi e scendersi sulle ciglia come una gravità e gli occhi balzare avanti come la voce stessa di quella che era offerta e implorazione, più offerta però. Vide lo Smortino giù a casa e la donna sua (solo i panni della donna); nell'immagine estrema tutte queste cose gli apparivano in una figurazione quasi di pittura o di teatro. È così la paura di morire? O solo quello che si pensa in punto di morte? Non avvertiva il ridicolo di pensarlo, poiché vedeva gli occhi di Geremia! - Tutti quando se l'eran prese avevano gli occhi così ma questo ancora non se l'era prese ed aveva in mano il fucile; ma specialmente non sapeva troppo che fare, cosa pericolosissima questa. Smortino e donna erano come figure di quadro nell'estremo risognamento, e anche Gesù ed i Santi, quadri, a toghe Gesù e i Santi; e nello smarrito ricordo delle Scritture li andava acchiappando tra brividi e mari di nuvolette.

    Sporse la mano "Pedroli" disse pianissimo, come se una voce più alta avesse precipitato le cose "uomo Geremia Pedroli, su tuo figlio, come dicevi - sì, su Spaccatutto, come lo chiami, tu non farai...".

    "Ah, ah ah, ah!" rise terribile Geremia. "Spaccatutto! A lui si attacca, mamma! Vieni, vieni!" comandò: e avvicinatosi al Tromba lo prese per mano come prima e se lo tirò fuori nel corridoio, che giù in fondo prima della luminosa finestra, voltava in una larga scala che menava al piano di sopra. La scala, in ombra, dava su vani e porticine in cui al Tromba sembrò di vedere rannicchiate molte persone, donne parevano, come certe statue annidate e tremende di chiese campagnole in cui s'era riparato dalla pioggia, lungo spedizioni simili a questa. Gli parve di veder scendere il signor Curato che aveva visto prima sulla piazza; ma gli occhi che corsero a quel nero non incontrarono che l'ombra.

    Ora Geremia Pedroli divorava gli scalini a passi di lupo, fucile a tracolla come un cacciatore, e, dietro, la vecchierella aveva l'aria di volerlo ritenere, benché si volgesse continuamente al gigante e con certi piccoli gesti non finiti sembrava invitarlo a salire. Quand'ecco in cima alla scala la porta che c'era si spalanca e uno di quegli uomini che s'incontrano ogni tanto, dalla faccia storta su corpaccio tracagnotto pieno di bottoni, appare lento lento e mostra in cima a due dita una coserella che il Tromba non vede.

    "È questa, è questa?..." (affanno e stupore infinito di Geremia) "tutto qui... Vecchia, vino! Un momento: Spaccatutto?" Si rovesciò sul Dottore e lo gettò da parte. Dietro Geremia il gigante entrò in una lunga stanza ombrosa, dove faticò a trovare un letto bianco, una donna che pregava con faccia inverniciata di lagrime.

    E Spaccatutto trovò, lì sul giciglio. Lo scorge dietro il gesto di Geremia che prende con mano adunca il crocifisso dal lenzuolo e lo posa quasi di nascosto, facendoselo passare dietro la schiena, sul comodino. Il ragazzo è color viola in faccia e ha la bocca aperta e gelida, bocca che stenta a ritrovare la cordiale posizione di chi tace. Ma sotto le due falci delle palpebre ardono occhi vivi già e allegri, come la pietra su cui batte il sole.

    "Spaccatutto", Geremia dice - è un di più se Tromba lo sente, tanto la voce è diafana, da colloquio interiore.

    "Ecco, adesso sei contento che mi hai fatto tribolare".

    Il Dottore si avvicinò al letto col suo passo pesantemente storto, e mostrò nel fazzoletto la coserella che prima teneva tra le dita. Il gigante allungò il collo: era una lisca di pesce.

    "Ancora un momentino e qui c'era un angelo" dice il dottore. La donna di fianco al letto, come schiantata dall'orazione, pare piangere, o ridere. Sul guanciale ci sono piccole sbarre di sangue. Certo ci hanno pulito la lisca, si dice il Tromba.

    "Uomo" fa Geremia, "adesso si che si può discutere. (La vecchia intanto era tornata col vino: aveva riempito due tazzette e le aveva appoggiate sul comodino, accanto al crocifisso e alla lisca di pesce). "Adesso capirò un po' di più quel che volete, anche voi buon uomo".

    "Bene" (è il Tromba che parla, e gli pare di volere parlando). "Allora Spaccatutto qui l'ha vista in candela? Era lui che aveva in gola la lisca di pesce?"

    Ma Geremia non dice nulla. Si rivolge al bimbo che respira sottile come respira nell'aria un arboscello, e ha aperto gli occhi del tutto. "Te, quando sei guarito, t'insegnerò che ci si mette tanto tempo a mangiare i pesci quanto ce ne vuole a pescarli. E anche il pane va mangiato adagio adagio perchè il pane io lo guadagno piano piano".

    "Salute, allora", si sente il Tromba, già sulla porta.

    "Aspettate un momento" fa Geremia "adesso metto la marsina e vengo con voi".

    "Cosa venite a fare?"

    "Eh adesso posso anche ritirarla la denuncia. Che m'importa del Capotecnico... Adesso mi farebbe nulla che mi schiaffeggiassero a volontà."

    "Bene" dice calmo il gigante "adesso vi assicuro che farei la sbornia se il Capotecnico e la sua schifa mano facessero la fine che meritano, che ne ho fin qui io della denuncia, schiaffo, colore della torta e così.

    Dite al vostro piccolo Spaccatutto che hanno picchiato suo padre, ma che non lo picchieranno la seconda volta.

    E ditegli di mangiare piano un'altra volta, che anche il mio Smortino ha il vizio di non cagnare quel che mangia, che un giorno o l'altro mi fa un enterite o così."

    Discorso che bruciò nel Tromba lungo tutto il ritorno, salvo un momento quando si fermò in quell'abbandonata osteria sopra il pozzo del fiume, e non ascoltò che sé piangere. ↑   

  • UN TACITURNO

     

    Quel giorno di vento e di freddo fu con particolare baldanza che ordinammo il consueto passito. E dire che il Caffè del Parco non era quale speravamo, deserto e tetro, tutto proteso verso l'entrata a vetri che dava non sul parco ma su una piazza (il parco era nel cielo sopra la piazza, gli alberi scoppiavan su da un muro rosso e lungo). Il vapore sui vetri, rigato da tentativi di ruscelletti, avrebbe dovuto avvertirci che dentro non c'era l'abituale atmosfera di luogo calato, deserto come una bocca appunto, una bocca scura in cui tutto conducesse all'aperto, dolcemente. Ma fummo messi in vena da una voce che sul primo entrare mi parve predestinata, vedova: tuttavia non ci volle molto a capire che la sordina non aveva che lo scopo di rendere meno pubblico un parlare sincero.

    Un tale dalla fronte immensa parlava con un amico. "Non sono un chiacchierone. So il peso delle parole io. E se dico che quel terremoto d'un Circo Knie avrebbe fatto meglio a perdersi nella galleria del Gottardo, so io il perché. Ma ditemi: con il Circo a due passi da casa e la moglie che ci tiene a morte di uscire con me, di farsi vedere al mio braccio, come avrei potuto evitare di condurla a uno spettacolo? Adesso non so nemmeno io se debbo lasciarmi andare a dire come fu... Al diavolo il cammello e quel tipo paffuto che fa ballare i cavallini! E dall'infanzia che li vedo. Forse per questo mi decisi a condurla, una sera che faceva un freddo cane e avevamo mangiato pesante. Perché mi ricordo di un negro che tanti anni fa in quel Circo faceva i cento salti mortali senza pause, su un lenzuolo elastico! e a una data ora c'era tutta la marmaglia che si aggrappava allo steccato per vederlo uscire barcollante e leggerissimo, per soffrire mentre lui rigettava sangue e sangue di nascosto dai compagni, dietro l'angolo di un carrozzone. Chissà dove s'è cacciato quel negro!

    Era mica antipatico, aveva due occhi azzurri e quando stava male diventava color sasso e per tanti anni quando mi veniva in mente lui mi tremavano le mani. Al diavolo il negro. Per dire che fu quel ricordo a farmi accettare le sollecitazioni di mia moglie. L'altra sera è stato che andammo: voi, ci siete andato? C'eravate per caso?"

    "No" disse l'amico.

    Sedemmo silenziosi accanto ai due, completammo il tavolo. Seguitò la voce:

    "Non voglio perdermi a ricordare cavalli e zebre, e nemmeno il rinoceronte color malva che quando comparì s'alzò una nuvola d'odor selvatico, e parve che solo a pungerlo con uno spillo avrebbe riversato fuori in un fiotto denso e lucido tutto se stesso. L'unica cosa che ancora dia qualche brivido è il branco degli elefanti quando se ne vengono cosi rubizzi e sconsolati, e a furia d'insistenze fanno cose leggiadre, scavalcano cavalli, si seppelliscono nella testa pagnotte di ringraziamento (che poi riconsegnano con la proboscide, fuori, ad un inserviente - visto io da un buco della tenda). Poveri elefanti! Bene, ci sono anche i pagliacci, lo sapete: a coppie, a terzetti. E adesso state a sentire. Devo dirlo? Che importa, ormai... Allora venne un pagliaccio che disse a un certo Scascighini, un ticinese che si menan dietro (lo so perché suo zio è parrucchiere qui da qualche parte). "Lo sa Signor Scascighini che sua moglie non le vuol bene?"

    Scascighini mostrò di arrabbiarsi, minacciò di dare uno schiaffo al pagliaccio. (Ecco, sono sciocchezze tali che mi fò rosso di vergogna solo a raccontarle. Queste cose tanto pesanti che hanno a che fare con la vita e la morte - l'amore, capite? In bocca a quei pagliacci...). Il toni replicò: "Non che non l'ama. Non c'è moglie che ami il marito. Vogliamo fare l'esperimento? eh? Orsù: che il pubblico sia chiamato a giudicare. Sì, adesso: che le mogli qui presenti, quelle che amano i loro mariti, alzino una mano".

    È idiota o no? Lasciamo andare...

    Com'era da prevedere, nessuna donna alzò la mano: chi si presterebbe a un gioco di pagliacci? Ma mentre un mormorio tra il pubblico mostrava che la sciocchezza era piaciuta, e il signor Scascighini si fingeva atterrito, ecco lì mia moglie al fianco che, con un sorriso che per dimenticarlo darei mezza vita, alza il braccio, la mano: lei mi ama, lei vuol dire con quel gesto che è innamorata di suo marito".

    La voce tacque. Ma riprese a tradimento che noi ci si era già dimenticati di essere li... "E bello, questo, signori? Potrete pensarlo come un bel gesto, dopotutto. Eh, che ne sapete voi! da quel momento io non sono più io, e se avessi l'abitudine di chiacchierare ne sentireste di quelle...

    Basta, se voi avete una certa morbidezza d'animo, che so... un'eleganza ecco nel cuore, avrete già mangiato la foglia.

    Perché io metto in relazione questo e quello: la donna che ha alzalo, sola fra tutte, la mano in quel dannato Circo, è la stessa che possiede due mantelli: uno bello e l'altro assai meno bello: così, quando esce sola indossa quello brutto, quando invece esce al mio fianco è il bel soprabito che le vedo addosso. E se talora, incontrandomi per la strada, mi accorgo che veste il mantello... diciamo feriale, che volete che vi dica? Sento in lei il rammarico di non aver indossato l'altro mantello. E questo è triste, è molto triste amici".

    L'uomo alzò verso di noi un volto assai malingamba, sorrise. Che sorriso dolce aveva! In noi cantava l'imbarazzo, gradevolissimo però.

    "Non è tutto" riprese. "Ho qui un foglietto per le tasche, dove sta scritto quel che volete, tutto quanto volete. Nel diciotto mi sono sposato: è stato il nostro modo di festeggiare l'armistizio... Ora è prossima un'altra pace, quella che seguirà a questa guerra. Allora io ho preparato una piccola festa per mia moglie: in vista dell'armistizio, dico, ho cominciato una poesia, per lei. Ma dov'è, dove s'è cacciata? Ah". Ci consegnò un foglietto che facemmo tosto circolare. Più che un foglietto era il rovescio, il palmo di una scatola di cerini: e i versi v'eran tracciati con una scrittura tanto minuta e disordinata che siamo per nulla sicuri di avere letto bene. Insomma, ricordo che diceva pressapoco questo:

     

    Silenzio diàfano che la contrada
    suggellava quei giorni del diciotto.
    Era inverno - ricordi? - L'arrotino
    che cantava... Dormivamo. Ero giovane.
    Avevi voglia di scherzare. Io no,
    volevo morderti, Per baia Però:
    giocar con un sospetto di pericolo,
    far di saliva sangue e d'unghia spada.

     

    "Le avrei ricordato, per dire, i nostri lontani giorni, con la mia poesia. E adesso lei va ad alzarmi la mano al Circo. L'ho uccisa stanotte" disse assai teneramente, e piano "stanotte ecco che l'ho uccisa. E per il bene di lei, di noi. Uomini, proprio voi che vi divertite a sentirmi - ecco là quello, che ride! - proprio voi mi giudicherete! Non ho fatto che cercare un punto immobile, dentro o fuori, in questo disastro e questa confusione".

    Poi la sua voce ci scoppiò agli orecchi, fattasi di colpo tonante. "Ah, mi pareva bene di aver dimenticato un particolare!" urlò "vedete cosa capita a chi tace, odia la chiacchiera e smarrisce la tecnica del raccontare? Ho omesso di dire che quando la poveretta ebbe quell'idea fatale di alzare il braccio, di annunciarsi innamorata, voltò un poco la testa dalla mia parte, con quel tale sorriso; e io, fu come se m'accorgessi per la prima volta che le mancano i denti più necessari al sorriso. Capite ora? Spero che non chiederete più nulla. Sfido io."

    In quel momento la porta del Caffè si spalancò, e dritta sulla soglia scorgemmo, con gli occhi feriti dalla luce ventosa del gelido giorno, una donna che somigliava a Luigi XV, bizzarramente pettinata: aveva la soave tracotanza degli obesi. Chiamò il suo uomo con voce innamorata. Il nostro interlocutore ci guardò un attimo, s'alzò, la raggiunse.

    Usciti, Toto (l'unico di noi che avesse ancora la forza di parlare) disse: "Vorrei solo sapere, prima di morire, se la donna indossa in questo momento il mantello vecchio o quello della domenica." ↑   

  • COSE DELL'ALTRO IERI - Prima parte

     

    Io da dieci anni son fedele impiegato della Frizzi & Schmid S.A., e la mia disperazione è di non potermene vantare. Chi si vanterebbe d'avere una bocca, o un apparato contrattile di venti dita? Lo stabilimento che ho detto non prevede diplomi di fedeltà, nè passa trafiletti ai giornali quando i suoi addetti festeggiano grossi anniversari d'integerrimo servizio: chi tra i miei lettori fa parte della Frizzi & Schmid mi capisce al volo e sa ch'io dico il vero. Considerate quindi l'aggettivo della prima frase come una pura compiacenza di forma: nè crediate che vi illustri la Frizzi & Schmid e le sue articolazioni. Vi son cascato come tanti altri, e so oramai che vi rimarrò fino alla morte. Quanti uomini partono di casa con una maschera: io vo in Municipio a lavorare, io alle Officine Riunite, io son giardiniere che nessuno mi batte, io orefice. E invece pochi minuti più tardi son li ad appendere la marchetta (un disco di bronzo con numeri di molte cifre) all'albo della Frizzi & Schmid che un guardiano gobbo apre e chiude con la chiavettina. Non importa il mestiere che facevate prima: insensibilmente vi trovate attirati nella sfera della Frizzi & Schmid da un gioco di avvolgimenti cui cedono il semplice e l'acuto con uguale irreparabilità, e vi trovate a passar gli anni in questa impresa dalle scrivanie frolle e fittamente intagliate, accanto a macchine dagli ingranaggi di legno, in quelle officine semisotterranee dai plafoni elevati in cui certi uomini che conducono, fuori, una vita civile tra le più banali e quotidiane, si occupano di compiti a fil di coltello coi più gelidi misteri.

    E difficile dire chi abbia creato l'apparecchiatura tecnica della Frizzi & Schmid: a star alla sua funzione dev'essere sempre esistita; certi macchinari, ad esempio, hanno nella struttura un che di preclassico, ricordano gli argani, le baliste e le catapulte di un mondo appena appena storico; gli impiegati zelanti, poi - quelli che fatalmente sono destinati ad amare il proprio lavoro e ad appassionarvisi affermano che in certe cantine poste presso la cinta ovest degli stabilimenti giacciono i fossili di ingranaggi remoti. Il nostro lavoro è semplice: consiste nella sorveglianza delle macchine, tesa ad impedire che per nessuna ragione il moto cessi sotto le tettoie della Frizzi & Schmid.

    In omaggio alla funzione della ditta, la sua vita è retta dai principi più squallidamente burocratici. Vi si trovan capuffici che, alti come aquile sui proletari delle basse sfere, si prosternano nella polvere all'apparire di funzionari più altolocati; e questi a loro volta si fan meschinissimi agnelli in vista d'altri lupi - così che tutta l'organizzazione si può figurare come una piramide di polvere e di gloria, al cui vertice sta - è noto - il Settore Direttivo incastrato nella macchina maggiore, quella che gli operai chiamano la "Rosa Fresca". Là le travature incorniciano una porticina d'avorio che freme continuamente per il moto alacre del blocco; talvolta qualcuno entra, altre volte qualcuno esce.

    Vorrete conoscere il prodotto della Frizzi & Schmid, suppongo; ma oltre al fatto che ci è - non diciamo proibito - semplicemente impossibile qualsiasi confidenza, ho una ragione personale per andar cauto nelle confessioni. Io non sono un uomo istruito, ma ho fatto le mie scuole; e prima di affluire alla ditta coltivavo quell'affetto di letture 1935, non so se mi spiego: su un remoto palpitare baudleriano, uno spasimo apparentemente freddo di poeti disperati d'esistere, una nostalgia d'assenza che sbocciava in inedite sentenze; "mourir de ne pas mourir"... Porte d'ebano, quindi, e finestre bianche, d'un bianco crudele. Ho portato meco quel groviglio di gusti che tardavano a far stile, e che, indistricabile, andava coagulandosi; e come volete che vi spieghi il lavoro della Frizzi & Schmid se esso non è che la feroce e incredibile realizzazione d'una delle finzioni letterarie più viete, qualcosa tra la macchina del tempo e la faticosa topografia delle prime pagine del "Roi Pausole", o peggio una fumosa macchinazione a mo' di un Gog papiniano?

    Forse mi riuscirà lo stesso di farmi intendere. La vita che viviamo oggi, indietro fin dove arriva la nostra conoscenza storica, ha una sua logica, una sua coerenza: in una parola, siamo sudditi di una realtà nella quale crediamo: magari malvolontieri, ma crediamo. Quella realtà per la quale un frutto matura, la percussione di un martello su una testa produce un bollo, chi la fa l'aspetti e i bambini muoiono senza che ci sia un colpevole da punire. Quella realtà dal cuore filosofico, dalla pelle intessuta di proverbi, dalla mente che, gallina dal pollaio, spicca voli morti e ricade senza posa. Ma credete voi che questa realtà sia l'unica che esista?

    Suvvia: io - forse per questo ero predestinato alla Frizzi & Schmid - immaginavo l'apparecchio totale delle possibilità come una ruota in cui noi, partendo dal centro, fossimo condotti unilateralmente su un raggio. (Ho saputo più tardi che in realtà siamo per cosi dire condotti su due diametri, e capisci la forma di due diametri perpendicolari l'uno all'altro). Ero persuaso allora che tutti i raggi partenti dal centro - una infinità di raggi nella capienza infinita del giro - fossero le basi di realtà diverse; a condizione di condurci in linea retta su uno degli altri raggi, pensavo, si potrebbe godere di una logica differente; se la ruota girando ci lasciasse sfuggire dal raggio a noi famigliare, potremmo capitombolare da una realtà all'altra, farfalle libere lungo un tappeto volante di incastri altrettanto logici che disoccupati. Più tardi la mia concezione della ruota si ampliò, immaginai il mondo totale delle possibilità simile, per spiegarmi, alla gabbia in ferro di un mappamondo, a una Sfera, ciascun punto della quale potesse venir collegato con il centro da un raggio che fosse l'asse di un sistema di realtà diverso da quello di qualsiasi altro raggio nella selva infinita dei raggi della Sfera.

    "C'è qualcuno che ci tiene su un raggio piuttosto che su un altro" mi rodevo, "la Sfera gira ma noi siamo incollati su un solo raggio, schiavi di una realtà che ci affanniamo a sistemare logicamente".

    La Frizzi & Schmid, bisogna che io dica, confermò la mia supposizione: quando capii che lavoravo svogliatamente, e con animo da impiegato, nell'amministrazione stessa di quello stabilimento cui spettava la funzione di tenerci sul nostro bravo raggio della Sfera. Questo basti: già mi vergogno d'essermi tanto sbottonato, e avrò da sopportare i rimbrotti dei compagni di lavoro, più zelanti di me nella gelosia del segreto. A parte il loro malumore (che non andrà senza applicazioni pratiche) so che sarò punito per quanto ho osato scrivere; ma oramai sono a una svolta critica nel mio impiego alla Frizzi & Schmid, e sento che tra non molto anche il mio caso verrà sistemato. Voi comprendete cosa significherà per me: ma in certo qual senso mi avvio volentieri al mio destino, il quale può forse mettermi più dolorosamente addentro negli arcani della grande Sfera... E insospettisco il mondo alla funzione della Frizzi & Schmid, quasi per accelerare la mia ora. La mia ribellione - oh solo il pensiero di una ribellione - m'ha procurato l'altro giorno un castigo - piccola pena a dire il vero; la prima, credo, del codice disciplinare che la ditta - lo capirete leggendo fino in fondo, - si trova ad aver naturalmente a sua disposizione.

    Del resto un mio affettuoso compagno m'ha poi mostrato una levettina quasi impercettibile in un mare di chiavi e maniglie che compongono la tastiera d'una delle macchine minori, tastiera affidata alla sua responsabilità; mi disse: "Vedi questa levettina?"

    "Ebbene?" (io).

    "Ebbene, basta".

    Ma torniamo al mio racconto. Fui avvertito da qualcosa che fumigava nell'aria - sguardi di superiori, saluti non ricambiati e via dicendo - che mi sarei dovuto attendere una punizione. L'attesi a cuor leggero, curioso di apprendere in che cosa consistesse, li in quella Frizzi & Schmid ove i lavoratori erano per forza di cose zelanti e incensurabili. Tanto che frequentai maggiormente la mia giovine moglie, che non mi sento di presentarvi altrimenti che come nòcciolo, una ghianda pulita e candida - polpa lustra di donna che m'è toccata a compagna e che, se talora trascuro per malinconia alla grande Sfera, amo e compassiono come si deve. Quel giorno, appena pranzato, l'invitai a passeggiare con me: alle due avrei dovuto recarmi alla ditta per l'assurdo picchetto di due ore che onestamente non ho mai compreso. Infatti il mio lavoro cominciava alle quattro, e per due ore ero costretto a sedere presso una finestra. Contavo di passeggiare con mia moglie dalla una alle due: ma nacque tra noi un diverbio di cui non ricordo i particolari: occasionato, mi pare, dalla scelta della strada ove condurre la nostra giovine e sempre fragile armonia. Di modo che presso le Tre Cappelle, a pochi passi dall'entrata della Frizzi & Schmid, la fanciulla volse la bicicletta verso Oltrano, dall'altra parte del Ticino che scorreva laggiù; e s'allontanò. Volli inseguirla, poi desistetti: non si sa mai quello che pensa una donna, e poi a Oltrano c'erano baracconi e giostre, cose per cui mia moglie va matta: e laggiù doveva appunto recarsi, in quei giorni, a comandare un pacco d'argilla che le occorreva per il suo lavoro. Mi parve d'accorgermi solo in quel momento che mia moglie era scultrice; ricordai che lavorava talvolta con un uomo, Faccia gonfia Io chiamava - uno del mestiere venuto da via."Speriamo che non s'incontrino alla cava di Oltrano" pensai. Vi avverto: per innocente che sia, tra due compagni vostri, moglie e amico comune, c'è sempre qualcosa che alita misteriosamente. E ancora c'erano quei divertimenti campestri che solitamente facevan leggera la moglie e la rapivano in una beatitudine leggermente incontrollata, da felice euforia... ↑   

  • COSE DELL'ALTRO IERI - Seconda parte

     

    Ma entrai alla Frizzi & Schmid, mi misi a sedere presso la finestra. È una consegna ch'io trovo, l'ho detto, sinceramente bestiale: star li a vedere chi passa, sentendosi passare alle spalle i compagni nel loro servizio... I pezzi grossi incedevano annunciati da un alito di silenzio, i chiacchieroni chiacchieravano, c'era un mucchio di gente, piccola e grande, che riempiva la stanza e rendeva faticoso, meno solitario, il mio picchetto. Dalla finestra entrava a vampe il brusio remoto, d'ali d'insetti contro un vetro, del Luna Park rusticano d'oltre il fiume; dalla piazza delle Tre Cappelle su cui m'affacciavo scendeva fino alla grande arteria stradale una via ripida e acciottolata, posta a settentrione dei fabbricati e costeggiata da case silenziose nella siesta - abitazioni di capuffici e di tecnici della Frizzi & Schmid. Qualche passante parlava come al solito a me prigioniero, io rispondevo innocentemente; fino a che mi ricordai con un'ansia improvvisa che mia moglie mi aveva promesso di ripassare alle due dalla Frizzi & Schmid, di venire sotto la mia finestra a darmi un saluto o un oggetto, non ricordo. Ed erano già le due e mezza...

    Ora, bisogna che immaginiate la rigidità della consegna: io la ritengo una sciocchezza, ma la Frizzi & Schmid vi connette un'importanza senza limiti - se tutti ammettevano tacitamente che si sarebbero cavati un occhio con il dito prima di uscire sulla piazza nelle ore di picchetto. Pure osai contravvenire: uscii. Inforcai la bicicletta, mi feci al pendio verso il fiume - trattorie, una casa dal cui tetto usciva fumo, un pastorello che picchiava la mucca con una bacchetta; ma non scorsi mia moglie. Tornai rapido al posto presso la finestra: ed ecco passano alcune persone tra cui riconosco Remo Rossi. Lui di solito così burlone mi si avvicina con faccia di rimprovero e mi dice: "È uno scherzo da prete. Perché m'hai dato a intendere d'aver sposato la Edith Musco, e invece ti sei sposata una scultrice? Perchè, dopo avermi dato a bere che hai sposato la Edith Musco, non l'hai fatto davvero"?

    "Come, Remo - cosa dici, io non ho voluto darti a intendere una cosa simile. Sono scherzi d'altri - forse è l'ombra, il riflesso d'uno scherzo tuo, che a te piacciono tanto". Il rimproverare non cedeva dal suo viso immenso. E mi lasciò stranamente smarrito, e venne un omettino sotto la finestra, mi mostrò una mano da cui mancavano due dita, allungò l'altra alla mia e ne staccò, con uno schiocco secco come se si trattasse di rametti, due dita; poi si mise affannosamente a premersele contro la mano orfana, mormorando: "Vedi? Attaccano e non attaccano, questo è il male. Proverai!" Ifnfatti le due dita ch'eran mie mal s'articolavano ai suoi moncherini: sopra v'era rimasto appicciccato un dito dell'altra sua mano, quella sana che aveva compiuto il lavoro. Cominciò una scena incredibile: cercò di rimettere a posto il dito staccato di fresco, ma nel lavoro le due mani aderirono (cricchiò un polso e si franse) e rimasero a baciarsi mentre l'ometto brancolava con il braccio mozzo."E tutta scultura" mi sorpresi a pensare. Intanto l'altro s'avviava blasfemando alla discesa: due mani gli spuntavano dal polso sinistro, due mani che s'accanivano una contro l'altra, incapaci di districarsi, sposate per l'eternità e già pronte a combattersi con dita che, lasciate sfuggire da sotto il pollice con slanci bruschi, colpivano duramente le dita sorelle.

    Le tre... Non vi dico l'ansia che provavo. Io che non conosco la gelosia ero offeso di sentirmi ardere a quel modo. Le tre e dieci, le tre e mezza... Non ressi più. Uscii nell'atrio dove s'ammucchiavano le biciclette del personale amministrativo, cercai la mia... La scorsi nell'atto di diventare, da velo d'uomo, velo da donna: ahimè, ormai non potevo già più ritenerla mia: e poi altre metamorfosi erano in cammino su di essa, la parte posteriore, ad esempio - come in quei mobili combinati letto-scrivania-biblioteca - era fiorita in lampadario. Pensai che la forma del mio velocipede fosse emigrata in un'altra bicicletta: guardai, cercai... Un gran desiderio di metamorfosi scoteva tutte le biciclette: in un momento nessuna più era in grado di servire: una assomigliava ormai a un violoncello, l'altra - con un ronzio simile al rullo di tamburo nei circhi quando l'acrobata eseguisce un gioco che potrebbe riuscirgli fatale - scoppiava in gabbie d'uccelli; una generava giocattoli, l'altra una enorme bobina di fil di ferro. Una sola bicicletta gigantesca, quella del capufficio, nera, con velluti e argenti, restava immutata nel suo angolo: mi dissero che il funzionario era uscito per una ronda, che sarebbe tornato subito: mi sentii tentato di servirmi del suo velo per correre ad Oltrano ed essere di ritorno per le quattro, ma mi arrestò un cartello appoggiato sulla sella. C'era scritto il suo nome, con quella calligrafia di malvagio maestro di scuola:

     

    GHIRINGHELLI...

     

    Nella mia confusione uscii sulla piazza delle Tre Cappelle. Boldini passava appunto in bicicletta con la sua figliola: deve aver capito al volo quanto m'occorreva, chè mi abbandonò la macchina senza batter ciglio, contentandosi di compassionarmi in quel modo tacito e malinconico, che denota una grande impressione e come un atterrimento. Volai per la discesa fino altra strada bianca laggiù... Per nulla al mondo sarei rientrato alla Frizzi & Schmid dopo le quattro: nessuno avrebbe avuto l'ardire di farlo. E poi, avevo già disertato il picchetto... Eccomi sulla strada maestra, è quella della mia contrada, la riconosco: una fatata atmosfera d'infanzia, un accorato trapianto natalizio in una primavera dodicenne... La casa dei nonni: vi fanno sempre festa, non so io cosa diavolo càpiti. Hanno abbassato una tenda a righe per riparare l'entrata dal sole, e li tengono allegria intorno al nonno che dà quei colpi secchi, da conoscitore, alle bottiglie polverose che i parenti fanno salire dalla cantina attraverso un trabocchetto. Speriamo che non mi scorgano... Da che ho preso il posto dalla Frizzi & Schmid ci tengono alla mia amicizia.

    La rarefazione sognante e malinconica in cui trovavo la regione a me cara, e i boschetti e le lingue pigre del fiume che lambivano i muri dei ristoranti, derivava senza dubbio dal forte rossore che mi veniva dalla fuga: vi assicuro che non ho mai trovato il mondo tanto proibito e lussureggiante, con un che di estetico-pompeiano che quasi faceva male, come l'altro ieri in pieno castigo. Ecco il Grotto Bentivoglio - parenti miei: ecco i giovani con gli agnelli che escono come un vento dalla sala buia del Ristorante (il verticale andava come un matto), e gli agnelli avventarsi ai ronchetti e biancheggiare tra i larici nani, e i giovani a chiamare e a scavalcar le siepi. Era come il singhiozzare di un sogno; la bicicletta del Boldini, poi, era uno strano congegno che avanzava faticosamente a premere sui pedali, mentre volava se, con una fatica che mi scendeva dritta nel cuore, tiravo su e giù il manubrio come uno che pompi acqua da un pozzo; non mancavo d'accorgermi un colpo si uno no che mi mancavano due dita della mano. L'aria era tutta vellicata dal riverbero sonoro, meno velato ora, della festa d'Oltrano: quand'ecco mi trovo nell'acqua fino alle ascelle, in quell'acqua uscita dal fiume per le piogge furiose della settimana passata. Mi agitavo tra i filari di vite sommersi per diguazzare a riva: e a riva scorgo un gruppo, due persone: scultore e scultrice, Faccia-gonfia e mia moglie, quasi nudi, che sorgevano appunto dal bagno afferrandosi ai tralci. La fanciulla, ghianda lustra e ghiotta, diceva:"Vedi quell'agnello? È segno che i giovani Bentivoglio sono in vista...". io corro fin sui due, voglio dire tante cose che non mi si colorano di voce: loro mi guardano miti e come calati da un altro mondo.

    "Capite, fate pure la vostra scultura fin che vi piace, ma per il resto più state alla larga e più mi farete contento" voglio urlare: impossibile. E entriamo in un padiglione ch'è li vicino, tra i larici; la fanciulla mi guarda, è già quasi notte e io debbo trovarmi da Frizzi & Schmid per le quattro... Da una finestra rotonda scopro tutta una sfera di stelle crude, Faccia-gonfia ha un suo guardare tonto innocentissimo. Improvvisamente capisco la stupidità di quanto sto facendo, la vanità della mia gelosia, il rigore delicato benchè severo della povera ghianda compagna col suo povero rapimento alla giostra e ai baracconi; il significato triste e quasi sacro del loro bagno nell'acqua di piena.

    La mia punizione ebbe fine in quel momento: quando, alzando gli occhi alla fanciulla, vidi che ormai sulla sua testa c'era un elmetto di marmo color tortora con venature chiare, un elmetto di marmo che faceva presa perfetta con le tenere ossa del suo cranio, come la scorza di un'arancia incattivita che non verrà via senza sbucciare placche ardenti di polpa...

    Ebbe fine il castigo - quanto mite e umano lo vedete - con un pensiero e quasi un rimpianto per tanta mia pena perduta, per quel mio dolore inutile. ↑   

  • TIRO FEDERALE I

     

    Quella primavera si cominciò a sentire un martellamento ostinato e vasto come il mare, dalla parte del Portone fin là verso il fiume dove si stendono i grandi campi brulli dei soldati e dell'aviazione. Da quella immensa fucina arrabbiata giungevano fin da noi a San Mamette, insieme ai primi uccelletti del mattino, ondate di battiti cupi come di grosse travi rotolate, su cui scintillavano dorati squilli di metalli, piovere o non piovere, per tutto aprile e tutto maggio. A salir nella stanzetta, col cannocchiale, vedevamo dalla parte del rumore un campo di battaglia, ma non battaglia d'uomini - di smisurate bestie ci sembrava, scheletri di bestie irsute, allungate o alte come torri, senza carne senza pelle. Animali venuti a morte, trafitti da certe sbarre di ferro lunghe come la fame, sui quali un sollecito popolo di manovali e giornalieri appendeva con fantasia lunghe file di stendardi.

    E sopra il campo di battaglia potevamo quasi scorgere, nel sole feroce di quell'estate, la collana secca e argentina del martellare, a spirali avvolgenti rocce, castelli, fin la schiena bassa delle nuvole. E il fiume (non si sentiva più quel suo scivolare bagnato, di mole interminabile, che era stato fin allora il rumore della piana) chiudeva il campo di battaglia dalla parte di Carasso.

    Una costruzione poi sorpassava le altre, tutta archi gotici smisurati, tra cui gli uomini volteggiavano su passerelle e funi come drappelli di mosche e mosconi volteggiano intorno a una carogna; e quegli uomini il binocolo paterno, che pure ci aveva dato terse distanze, non riusciva a farli uscire dalla loro apparenza di mosche e mosconi attirate da un immenso, mistico banchetto d'animale morente.

    Cosa fosse tutto quel bazar lo si sapeva, avendo bevuto da infiniti discorsi in casa e fuori con un crescendo che fu impossibile ignorare queste parole fatte di polvere e sole Tiro Federale Tiro Federale Tiro Federale. Un giorno ero dentro alla Moesa a cercar rane col fratel mio Dormi-Dormi, e ne avevamo già infilzate una bella collana su un fil di ferro, quando i larici in riva al fiume furon presi in un'aria di bufera - ma ben altro che bufera sembrava. A ciel sereno, quei buffi pesanti e vuoti, d'atmosfera succhiata, s'ingolfavano sulle alte fronde e mandavano intiere ramaglie a fremere stroncate sulla sabbia. La Moesa passava ancora pacata, bassa di livello, ma l'acqua appariva abbrividita come da un'altra acqua torbida che vi rampollasse continuamente. Una barchetta che venne a passare, costruita da quel tipo strambo di Castione, si rovesciò tanto improvvisamente che credemmo per un momento di esserci sbagliati e di non averla vista. Ma il tipo strambo di Castione passò nuotando presso riva e ci gridò ,"A casa canaglie, che c'è qua l'antecristo!"

    Allora alzammo gli occhi al cielo tra i larici e vedemmo nuvole, no, polvere di nuvole vedemmo, roteante, con dentro grandi foglie vertiginosamente alte che sulle prime prendemmo per corvi. E diventò scuro scuro e l'aria vibrava come un organo Iì sui ripari e noi che fuggivamo con le rane morte, tra i pagliai e i macigni del sentiero.

    Fu notte di colpo, una notte rossastra, fibrata di lampeggiamenti, tanto che trovammo casa nostra solo a furia di tastare i muri, tra genti mute che fuggivano.

    La madre aveva acceso l'elettrico in cucina e, incappucciata in certi sacchi, si preparava a venirci incontro. Allora si fece il segno della croce e corse a chiudere la finestra del retro per evitare correnti d'aria. Noi si filò su in stanzetta col binocolo per veder più temporale che fosse possibile; una cupa atmosfera notturna faceva paurose le lobbie, e le scale suonavan di vuoto. Una notte senza stelle vedemmo dalla finestra elevata della stanzetta: tra noi e il cielo nero correvano nuvole lente come bastimenti, che a un certo punto sembravano capitombolare in un vortice, giù sopra Bellinzona, e calare sul Borgo come mezze montagne. Il martellare laggiù taceva, e dato che eran settimane che non smetteva nè dì nè notte fu pauroso quel tacere. Il campo di battaglia non si vedeva più. A un dato momento un vibrare leggero e zincato, in cui sentimmo il vacuo silenzio delle cose velocissime, venne giù dalla gran valle, oscillando cauto come un ventilatore sospeso in una rete; e mentre c'entrava negli occhi una sabbietta fine e ardente, quel vibrare riempi tutto il cielo e calò sul Borgo come un goffo gigante dai piedi di nuvole.

    Allora fu impossibile stare alla finestra con quel ventare di sabbia e di aria affocata che ci strappava la pelle di faccia; acquattati dentro sul pavimento, vedevo la mite luce del volto di Dormi-Dormi accanto a me, ma non più viva di un sasso bianco sulla terra scura della notte. E mentre guardavo quella faccia come appesa accanto alla mia, silenziosa e solo leggibile (occhi naso bocca), senza vita, simile a un calendario, un fracasso bestiale si srotolò laggiù a Bellinzona, lento a svanire in tutto un ordine di echi, ma chiaramente originato da un perentorio secco crollare di corpi sonori, appiattiti in un baleno, come la mano di un fanciullo annoiato fa scoppiare d'un colpo solo la fragile barchetta di legno. Ma forse ciò che continuava e s'avvolgeva battendo duramente la terra e facendola suonare era il coro di altri stracciamenti e frittate, tanto simultanei da diventare unito canto di disastro in cammino, senza pause nè scoppi, per un tempo senza fine.

    La città scheletrica e fantastica del Tiro Federale saliva, tra un mare di foglie strappate agli alberi, nella tromba della bufera.

    Io ero un ragazzo cattivo, non so se l'ho già detto, malvagio almeno quanto può esserlo un vecchio; ma ben malvagio, se quel coro di rovina mi riempiva di una gioia feroce, e se con mascelle e mani ci davo a illudermi di aiutare in qualche modo il goffo gigante dai piedi di nuvole che frullando faceva un budino della faticosa macchina non ancora finita di costruire. Ma poi mi pentivo, per tornare ad appassionarmi: altalena di un giovane cuore perfido, sotto una bufera che quel cuore non influenzava...

     

    Più tardi quando donne lunghe come spettri si rifecero sulle soglie e tesero al cielo tornato sereno la testa e le braccia, quasi a invocare un perdono, io andai a cercare Dormi-Dormi nella vigna dov'era scappato appena s'era fatto chiaro; lo trovai che giocava con una specie di gabbia grande come la stalla del porco, da cui si partivano taglienti fili sbrindellati. Era un pezzo di Tiro Federale ch'era venuto volando fino a San Mamette. La madre correva chiamandoci con il rosario finito e ricominciato che le batteva sul fianco.

    A sera il padre segò e spaccò la gabbia in tante stelle di legno che mise nel sottoscala. Mise da parte solo un lembo di assito dipinto, c'era su una donna nuda tutta legata da grosse catene, con un lucchetto presso la bocca, dalla quale usciva una nuvoletta con dentro scritto

     

    Chi sarà il mio liberatore?

     

    Il padre prese quell'asse dipinta e partì per il Borgo, in bicicletta, dopo essersi vestito della festa. ↑   

  • TIRO FEDERALE II

     

    Ecco, quel che si dovè sgobbare tutti, noi della Tecnica e della Commerciale e uomini e cittadini e quegli altri che vennero chiamati ad aiutare, lo sa solo il Signore. I Comuni vennero avvertiti da uscieri che guai a chi non sarebbe accorso al Borgo, con la migliore volontà di dare una mano. Noi della scuola fummo condotti a due a due in lunghi cortei guidati da Professori palesemente seccati, fin sull'orlo del campo di battaglia; e li i Professori si cavarono sigari di tasca e fecero una fumatina e uno perfino parlò grasso, a crocchio con gli altri - un gruppo di buffe grosse ombre, semplicemente pericolose invece che severe.

    Ma vennero presto certi uomini del Municipio e del Comitato con coccarde sul petto, e una bella confusione cominciò a spandersi un po' dappertutto: di ordini volanti che non cadevano su nessuno, di insulti convinti, squisitamente ufficiali, con trasparenze oratorie; vidi più di un innocente raggiunto da schiaffi municipali e vibrare, Ii in piedi con gli altri, soffocando con cura il lamento della vergogna.

    Finalmente venimmo istradati in qualche modo verso tutta quella rovina, con la raccomandazione di "pulire, rimettere a nuovo, fare ordine". Sì: ma più che altro si trattò di riuscire a metter piede nel campo di battaglia, ai bordi del quale un anello di folla non capiva come diavolo si sarebbero potuti fare anche solo cinque passi in quel camposanto. Cominciavi col non vedere che un mare di foglie di ippocastani, bagnate foglie simili a mani piatte e molli, stese a perdita d'occhio sulle gran bestie fossili crollate e sgangherate. Ma se provavi ad avanzare t'accorgevi che la tromba temporalesca aveva fatto un buon lavoro, distribuendo la maggior parte dei relitti (brani di baracche volarono tanto lontano che qualcosa arrivò per posta, al Comitato, fin tre mesi dopo) un po' ovunque sugli immensi campi brulli, in uno spessore incrostato e senza crepe. Avevano poi cominciato prima del maltempo ad avvolgere gli scheletri turriti nelle vaste tende impermeabili, che erano i muri e i tetti di quella fantastica città la cui storia non doveva andare oltre l'estate; e ora queste tende scarpate tenevano insieme i relitti con caparbie braccia flessuose. E poi c'eran chiodi mostruosi per il vostro corpo, e maniglie di ferro all'altezza della testa: insomma il Tiro Federale era tutta una delicata trappola dalle molte risorse, che, simile alle grandi rovine del passato, pareva volerci celare chissà che segreti della sua breve faticosa vicenda primaverile. Dài e dài, quei manovali e giornalieri riuscirono a scavare cammini complicati e tortuosi, verso i quali ci avviarono non senza nervosismo. E allora ci disperdemmo, popolo di pazzi fanciulli in cerca di svago, in un sottosuolo straordinario, incontrando certi grassi animali di pioggia, schifosissimi, che caracollavano sui tappeti vegetali; e armati di chiodi taglienti squartavamo le pareti di tenda, passavamo sotto grotte inclinate tra colonne fatte di travi scheggiate e fradice, in cerca di meraviglie. Veramente, ce ne sarebbero state per tutti i bambini della terra, da adornare foreste e foreste di alberi di Natale.

    Quando poi una luminosità meno fioca ti avvertiva che lo spessore di cimitero era più sottile, e forando e scavalcando riuscivi a portar fuori la testa all'aria aperta, un panorama lunare ti si offriva dinnanzi, con montagne e crateri di rottami sotto i quali sentivi uomini ansare e andare, venire - ebbri dal primo all'ultimo, in un odor di fossa scoperchiata. Certe volte (procedendo sempre sullo stesso piano ti pareva) capitavi su un incrocio di legnami sotto i quali lo sguardo ti si inabissava in strati remoti d'aria cupa, caverne in cui non c'eran che groppi di travature sbandate, e un silenzio di basilica tra tendami non tesi, abbandonati. Talvolta, facendo cascare un fascio di materia morta per aprirti la strada, sentivi un grosso corpo dall'elasticità della lepre sbattere e soffocare: allora, affrettandoti a disseppellire quel corpo, capitavi addosso a un bambino che anche lui traforava la molle rovina; oppure incontravi uno di quei fetenti delle classi avanti che strappandosi di bocca una foglia marcia che la stoppava, passava oltre dopo uno sguardo da grosso pesce indifferente, ignorando a tutti i costi che anche a te, povero moccioso era riuscito di spingerti tanto lontano.

     

    Un bel momento,stracciato un lembo di tela, arrivai in uno stanzino che pareva l'interno di una scatola di sigarette vuota, stritolata tra le mani prima di venir gettata: chè i velari bianchi che gli facevan da pareti si erano capricciosamente riavvicinati sotto la spinta esterna di sfracellati legnami. Ma qui la luce era soave, muta, come di tramonto; mi trovai d'incanto in mezzo a tavoli zoppi su cui eran disposti belle anfore d'oro, vasi dipinti, piatti di rame ricamati, urne e olle artistiche, e statue di bronzo e di gesso, scolpite dai primi Scultori di quel tempo: tutti Premi per i più valenti tiratori!

    Ero capitato senza saperlo sul Tempietto dei Premi. Tutti quei recipienti erano rimasti miracolosamente intatti, in piedi anzi sui tavolati, e li trovai ripieni d'un acqua rugginosa, tra il rosso e il verde. Ero un fanciullo cattivo, l'ho detto; e fu più forte di me la spinta a prender su un travicello cascato dal tetto, e a menar le più pazze randellate del mondo alla chincaglieria esposta - va bene che qui mancava già un manico, là un braccio, altrove una zampa di leone. Mai, mai ho più avuto tanta roba da spaccare! Nel bel mezzo di questo malvagio lavoro sento un grattare, cauto e deciso, come di qualcuno che volesse entrare dai velari: mi metto a cercarlo, gli faccio strada... ma è il Professore di scienze! (un "compagno" come diceva mio padre, lamentandosi che questo fatto non influisse sulle note di profitto che mi dava). Ecco lì questo Professore, barba grigia e compagno: cercava di andarsene, scivolando via dietro un lembo di tenda. Probabilmente era rimasto nascosto tutto il tempo.

    Lo sguardo che mi rivolse fu certo più viperino del necessario; ma io, trasportato (e pensato che in fin dei conti eravamo in tempo di vacanza, quindi fuori di portata dalla sua pagella) prendo un'urna ancora intatta, piena d'acqua piovana (che stramberie si fanno talvolta), l'alzo, e ,"Salute, alla salute" dico, facendo l'atto di lambirne un sorso con le labbra. Ecco, prese una posa da Professore fotografato. Alzò un dito severo, mi squadrò con molli occhi distanti. "Piccolo, piccolo mascalzoncello" disse. Lo guardo... Accidenti, cos'ha in testa il Professore?

    Una corona d'alloro aveva su. L'avevo interrotto mentre provava la sua parte di buon tiratore, di eroe magari. E s'era dimenticato di strapparsi giù la corona in mia presenza, la corona che aveva trovato tra gli altri premi e che, combinazione, aveva proprio la misura della sua testa. Queste corone d'alloro, non c'è pericolo che non vadan bene a una testa piuttosto che a un'altra. E stavolta una corona di buon tiratore, d'eroe, aveva trovato la via di una buona testa di Professore, barbuto e "compagno...".

    E allora continuò il suo cammino come il fantasma di un vero eroe, in quel cimitero di gloria non sbocciata, tra le bestie rovesciate e le funebri tende che legavano ogni cosa con braccia di gualdrappe tenaci.

    Io non feci più degli altri, nè meno, per pulire, fare ordine; se non prolungare un po' l'opera temporalesca fracassando e stracciando' in cerca di quello che tutti inseguivamo nel sottosuolo funambolesco pieno di trabocchetti: la chiara sgombra terra dei prati, quella verde bandiera erbosa che infine trovammo in fondo a strati e strati di materia, tra i quali s'annodava il calore forte del marcio.

    E l'instancabile uomo che costruisce e rifà il muro di casa, la porta di chiesa come i vuoti baracconi per i propri migliori sentimenti, tornò a martellare e a drizzare gl'irsuti legnosi, che combattessero lealmente in aperto campo di battaglia. E persuaso di far opera di bene consegnò il dì previsto una lucida città fuggitiva, sognata come un miraggio, al Comitato e al popolo venuto da presso e da lontano. Noi si ebbe pane e salamino, e un diploma che tengo ancora. ↑   

  • RITRATTO DI OMETTO E VIAGGIO - INCONTRI - Prima parte

     

    Un ometto - un semplice, malinconico ometto dai capelli a spazzola e i baffi color spinaci e gli occhi castani e un sentimento di età non raggiunta, segnata sul Libro ma non raggiunta che su quel libro; il dubbio di essere uomo, un non pensarsi addosso una statura d'uomo; non certezza dunque ma dubbio vago - senza disperazione, ma dubbio di sè, della vita in sè. Provate un po' a crescere nel sospetto continuo di paterne unghie dei piedi cornee, come applicate - unghie da pescatore, in cima ai piedi insolitamente bianchi ma duri, duri anch'essi come le unghie; a crescere nel sospetto di sentirsi ogni momento quei piedi addosso, a frugar nella carne come in stracci troppo miserabili e tignosi per venir toccati con le mani. Infanzia fatta di pesi portati e trasportati come per un gioco senz'altro scopo che il tormento di quel gioco; di cavallina rastrellata sulla strada maestra con perenni bidoni di cui conosceva il peso e il maledetto metallo. E ditemi se può chiamarsi gioventù quell'aver paura degli altri uomini senza ch'essi vi provochino, quell'andare tra di loro esitando, sempre sul punto di inciampare, con la paura dentro rotonda e accesa come un occhio. E pensate quest'ometto che, giovane, va in Fabbrica a farsi brutalizzare dai Sottocapi e specialmente dal Vecchio Löffel che era nella manica e aveva come la corrente elettrica nelle dita quando ve le metteva addosso - pensate a questo ometto giovane, ma pensatelo con la disgrazia d'esser nato per comandare - sicuro; d'aver ricevuto dal cielo la missione, quasi il male di dover dominare sugli altri, e dite voi se si può essere contenti a questo mondo. Ma poi pensatelo convinto mollemente alla vita, come da una forza senza fretta, forza però se non prepotenza; abbiatelo in mente nei pochi giorni in cui a uno è dato di avere una certa quale grandezza - quando si sposa, quando ha figli - o alla disperata in quei momenti di gloria che non vengono negati neppure ai più tapini - momenti del pianto ad esempio, e in certi tramonti che lui ricorda di essersi infine perso da tutto il trin-tran, accanto a qualcosa di più vero e grande degli altri uomini. Oh, non che voglia ormai più comandare nessuno! Sè stesso vorrebbe solo ordinare, e con tanta lenta precauzione come un pericoloso individuo che non conosca, che gli sfugga.

    La donna che ha per moglie non s'è occupata di render docile quell'individuo, anzi! con meno intuizione di quanta basterebbe a un bambino per conquistarsi la più misera briciola di dolce, ha lasciato che lui e la sua vana grandezza interiore continuassero a combattersi, ignorando addirittura questa lotta - benchè in certi momenti ne abbia avvertita la durezza, come quella volta che lui con un pugno aveva spaccato un vetro in piazza Municipio - che lei vedesse che uomo era lui, che diavolo aveva dentro. Ma mentre solo alcuni ragazzi vennero a presso e videro il sangue sgocciolargli dalla mano nella manica della camicia scozzese, lei si era ostinata a credere in un semplice infortunio, che fosse stato per malore che quel pugno aveva picchiato nel vetro e n'era venuto fuori sangue. "Ma no" diceva lui "no no no...". Ecco dunque questa donna definitivamente salva dal diavolo di lui, ma ecco lui più solo, "splendidamente solo" come usava dirsi con un radioso luogo comune che lo affascinava. È chiaro ora che l'ometto non è nemmeno lontanamente degno del suo diavolo? E pensatelo pure malinconico, che lo è, e mica male: d'una gentile malinconia anche, assorta, della durata lenta dei suoi giorni, occupati appunto a pensarsi malinconico come la bella donna dedica tutto il tempo a immaginare la propria bellezza, non pensando ch'è questo il miglior modo per perdere l'uno e l'altra.

    Non altrimenti va sognandosi quel giorno che, fattasi dare un'ora libera prima di sera e ritirato da un Tabacchino presso la Fabbrica un lembo d'assito che porta le tracce d'un dipinto, s'avvia in bicicletta verso il Tiro Federale che rugge laggiù; mentre osserva nel lucido fanale la fuga sghemba degli alberi e delle finestre che volando combaciano in un unico punto, remotissimo, cui convergono quasi in un frusciare di vetro, e vede sè riflesso presso quel punto (buona cordiale testa d'ometto malinconico e solo solo solo), allora rammemora tutto quel suo tiramolla ma senza immobilità questa volta, risalendone gli strati e le peripezie, e raffigurandoselo ricco e bel conflitto interiore, ricchezza per lui ometto d'adesso; come una mascalzonata che facciamo, e anche qualcosa che c'infiammi le gote, troverà sempre prima della nostra morte un'ora di compiacimento. "È strano" pensa' "mi par che vada capitandomi qualcosa di bello". Proprio cosi pensa - sempre in quei momenti si fa come lui ora, come se la bella novità cominciasse a capitare al nostro passato, colorandolo dolcemente nel suo silenzioso e arcano rincorrerci.

    Non dimenticò più quel presagio, per anni e anni. Cominciò a ricordarlo già quella sera, sul tardi, tornando sulla solita bicicletta che lui si meravigliava di dover riconoscere per la solita bicicletta, che fin quel suono nella ruota di dietro non era cambiato. "Tante volte eh" si diceva. "Tante volte come si fa nella vita. Si sentono venire le cose!" E lo pensò tutta la notte nel letto matrimoniale accanto alla moglie addormentata e il giorno dopo in Fabbrica e di nuovo la notte tardi sulla solita bicicletta e poi sempre ogni giorno e ogni notte, che perfino si scordava del proprio diavolo.

    "Tante volte, eh" diceva. Era a posto, era a posto: solo per questo attendeva ormai, sopportava. E ora che si trovava di colpo tutto in pugno, infanzia e dominio degli uomini, non ci pensava già più. Così l'amore invece di chiedergli sacrifici gli dava già una vittoria sul tiramolla, e Io faceva uomo fantasticante che, su una bicicletta rimasta straordinariamente la stessa malgrado tutto, correva laggiù ogni tramonto ad annegarsi nella vittoria, accanto a una meravigliosa dolcezza di corpo che di cosi belli non aveva nemmeno sognato che ce ne fossero. Gli pareva di conoscere ogni cosa, ora - pittura, musica: lui che in casa non aveva che la réclame della lana, appesa al muro, insieme a quei calendari; e che in quanto a musica aveva solo lottato, per sere intiere, contro la tristezza della voce armonica, contro quei bassi di madreperla, uniti e misteriosi, gravi. Quando in certi momenti la donna laggiù si voltava verso di lui, e sulla sua faccia pioveva quella luce crepuscolare del tendone, usava ripeterle, come una frase musicale che a venir ripetuta aumenti di grazia e ci renda più convinti del suo mistero, che "se lui ometto fosse pittore, è con i lineamenti di lei che avrebbe raffigurato la Madonna". Il suo cuore di "compagno" anticlericale non si vergognava affatto di quella trovata; s'andava anzi accorgendo che quel pensiero dopotutto vicino a Dio aiutava a far sprofondare il già domo e soffocato diavolo in lui.

    Soltanto che a casa la madre non aveva requie un momento. C'erano tante cose che non andavano, che proprio non andavano: la più grave era che il suo uomo non si levava più il vestito della domenica. "Cambialo, finito questo non ne avrai più da metterti la festa". Macchè, non rispondeva nemmeno. Cosi videro quel vestito vivere vivere come altre cose nel cuore paterno; da vestito della festa passò in una sera vestito di tutti i dì, così come il suo diavolo, unica cosa che lo facesse uomo, si dileguò e peggio venne soffocato laggiù sotto un tendone qualunque.

    "Uomo".

    "Cosa c'è cosa c'è ancora?"

    "Tira fuori quel vestito, tra poco dovrò mettergli le pezze nel didietro".

    Silenzio del padre. I figli lo guardavan con occhi slargati da una sorta di meraviglia, in piedi accanto alla gamba del tavolo. "Cos'è tutta questa cagnàra"? esclamava l'uomo. "Il vestito e non il vestito!" E piovesse o facesse bello lui partiva per la Fabbrica ma non tornava che nelle ore scure della notte, quando la Fabbrica eran ore che taceva e puzzava tutta vuota, e il guardiano Barichello leggeva giornaletti capitalistici (così narravano gli operai) nel suo sgabuzzino beneviso ai superiori. Che ne sapeva il ragazzo dell'ometto ben vestito dai capelli a spazzola, e di quel che faceva nella città del Tiro Federale? Oh, ora che neppure i più arrabbiati e caparbi ragazzi non troverebbero più nei campi brulli occidentali la minima traccia di quella città, gli sarà meno misterioso quel che strozzava l'ometto triste sotto la tenda molle accanto a una Donna Serpente o Donna Cannone o qualsiasi altro accidente di Donna. La madre, più tardi, ebbe un bel chiamare quella donna della tenda con i più zingari titoli spregiativi: l'uomo non poteva tenersi lontano da una faccia che come nessuna mai gli veniva e gli stava tanto vicina da parergli la luna addirittura, nella dolce luce tramontante; non poteva dimenticare quel suonar fondo e lungo del fiato all'orecchio, come di mare in una conchiglia, quando la bocca che fiata è tanto vicina a quell'orecchio. E mentre la Donna Serpente o Cannone gli dava in un bacio pittura, musica, infanzia e dominio sugli uomini, c'era il cuore di suo figlio su a San Mamette che come gonfiato e alleggerito dalla grande attesa, pareva far volare orizzontalmente e senza scosse il piccolo corpo strapazzato dal sonno, sudato e teso. Ma guarda il il fratellino, piccolo fanciullo - eccolo che dorme con la dolce goccia di saliva che fa su e giù dalla bocca spalancata al cuscino! No no, c'era Dormi-Dormi, e anche la madre c'era, nell'altra stanza, con uguali orecchie in cui s'accoglieva cavo e lucido il rumore della notte: ma non nelle sue, non nelle mie orecchie il lamento del cancello, non il passo dell'uomo nella corte, specie su quella pioda malferma del lastrico che dava un suono vacuo sotto il piede... ↑   

  • RITRATTO DI OMETTO E VIAGGIO - INCONTRI - Seconda parte

     

    Io non riuscivo a scrollarmi di dosso la paura. Assorbita con il latte in una casa di genitori malfermi tra gli altri della terra, come ometti ficcati giù senza piombino al piede, in una di quelle dimore in salita di San Mamette che una aveva il tetto dove l'altra la cantina, e che a parlar forte tutti sentivano quel che si diceva, io ero, dentro, un desolato fluttuare di perfidia e di paura. La stessa oscurità della stanza mi sgominava: m'ero messo a tirare il lenzuolo sopra la testa fino in cima al capezzale disposto in piedi lungo la lettiera elevata. E sotto quel cielo di tela, non dissimile al cielo nebbioso del tendone laggiù sull'ometto, passavo lunghe ore in agguato.

    Unico svago mi era immaginare sopra le coperte del letto, semplicemente appoggiata sui drappi come un oggetto qualsiasi, una enorme testa di romano in cartone, con l'elmo e i pennacchi; quella testa fantastica veniva senza tregua come un bastimento notturno a naufragarmi addosso. Era l'unica cosa che mi tenesse compagnia in quella galleria di ore d'ebano e d'onice, con un silenzio dentro che ogni secondo il cuore scompigliava nel mezzo, con un tuffo tosto soffocato dai lembi ricadenti di quello stesso silenzio. Poi infine il cancello si lamentava, i passi cordiali del viandante echeggiavano nella blanda notte estiva, la pioda sconnessa picchiava la terra; e seguivo come da un soffitto di vetro il padre giù in cucina cavarsi le scarpe sospirando, aprire la credenza e tagliare una fetta di pane e un po' di formaggio o pancetta. A bocca piena stava l'uomo in piedi nel mezzo della cucina, e masticava pianissimo come se masticando facesse dappertutto rumore come nella sua esaltata testa di ebbro. E non si sentiva più nulla per un minuto: ma tirata l'acqua del gabinetto che scoppiava sfrenata per poi gocciolare a lungo in sospiri nascosti nei muri, veniva il padre su per le scale, piano piano, a piedi nudi. Non era ancora in camera che accanto al lungo sognare di Dormi-Dormi nasceva il mio, tremulo e esitato, che il cruccio della sera faceva dolcissimo.

    "Donna-Serpente, Donna-Cannone, Donna-Con-La-Barba...".

    "Ma no ma no beata donna. Artista è. Mica una gitana, cosa pensi...". Una bella notte il segreto era sgorgato dal cuore del padre come un frutto troppo atteso che ci venga offerto maturo quand'è passata la voglia di mangiarlo. Infatti la madre lo bevè senza meraviglia, con un coraggio materno e ingannevole, diplomatico, che lasciò il padre del tutto vuoto e quasi impoverito, quasi pentito già.

     

    Allora andammo a Bellinzona con la Corriera vuota che pareva volare un metro da terra e aveva i vetri chiusi e c'era una Suora, dell'Ospedale; piena di risentimento pareva. Non certo verso di noi, risentimento, noi che la madre stringeva e cullava con una sorta di fame disperata. Volava la corriera sullo stradone e oltre i vetri passavano a balzi villette e osterie bloccate dalla verzura, e fronde impolverate di noci peschi e meli frusciavano discrete sul tetto d'incerato. Anche il conducente era una specie di suora, anche lui risentito, a stare alle parole e alla grinta e a come stringeva il volante e a come dallo specchietto ci guardava sospettosamente.

    Dormi-Dormi si lasciava coccolare senza forza, tanto il sonno in lui mormorava fresco e non viziato, d'acqua seppellita sotto un muschio. A me quello stringere e baciare faceva battere un tremendo sangue alle tempie, e venir voglia di fiatar profondo, di riempirmi di vento anche il ventre, le gambe. "Poveri bimbi sfortunati" diceva la madre. Aprì la borsetta e mi fece scivolare in mano il freddo d'un franco. "E questo non lo spendi" disse, "è se mai vi perdete, con tutta la gente che c'è. Tu che sei il più grande saprai eventualmente ritrovare la via di casa". Aveva voglia, povera madre, di far uscire un po' del suo dispiacere, pensandolo vuoto e compresso, come una aria, tale da vaporare sotto una punta che ne lacerasse la crosta faticosa e dolorante. E strano - pensieri che le si leggevano in faccia - che i dispiaceri ti seguano tenaci e cosi infallibilmente: salire in Corriera, volare per un cammino lungo mezz'ora a piedi, e scendere con tutto il dolore intatto addosso, è cosa da meravigliare. (Tanto lei aveva il sentimento di un dolore indipendente, quasi nuvoletta che avesse scelto lei da tormentare piuttosto che un'altra madre o "sposa). E la monacale, spirituale tristezza della Suora la solleticava a svelarsi, ad aprire il cuore abbandonatamente, a dire anche più della vera misura del suo dolore, piangendo magari o maledicendo - la Suora avrebbe forse forato la crosta del suo male con parole di carezza.

    Intanto si gettava su di noi e ci riabbracciava come se si vendicasse di qualche cosa, con occhi secchi e una dura indecisa luce in quegli occhi. Poi sentimmo lontano dai campi brulli verso il fiume un gran suonare e squillare confuso di giostre e di organi urlanti e di genti impazzite che celebrassero. Un sole abissale di fine giugno appiattiva e soffocava sulle praterie la fanfara sterminata del Tiro Federale, e ne spandeva il fracasso tutt'in giro per gli altri prati la città e i paesi: a picco cento metri sopra doveva esserci un sereno silenzio, fatto di cielo e di caldo. Il fracasso aveva un battere ritmico, di cuore immenso tormentato, e fu ben presto più forte del rumore della Corriera, e anche le parole della madre le capimmo solo dalle labbra "Ah Amabile ah Dormi-Dormi, che passo mi tocca fare!" Scendemmo alla Stazione dove quegli autisti balordi s'insultavano prima di addormentarsi. Il Medardo del gelato ci guardò passare con quella sua faccia di maldistomaco, e la mano mi cercò per le tasche il freddo del franco; ma impressasi l'Elvezia del ferro scolpito sul polpastrello tornò fuori a prendere la mano gemella di Dormi-Dormi, che non andasse a finire sotto un'auto. La madre, ormai convinta a un suo dolore infallibilmente destinatole e senza rassegnazione per il momento, aveva preso per certe stradette dove non passava che qualche sbandato, e le botteghe parevano più conosciute del solito, e più vuote, ognuna col suo odore di pane di carne o di stoffa, tra giardinetti incastrati tra muro a muro. Mi orientai dal sarto alto venti metri che misurava la cintola di un ilare ufficiale, dipinti sulla muraglia nuda d'una casa: SARTORIA CIVILE E MILITARE. La sterminata pittura sovrastava gli altri tetti. "Qui andiamo in piazza" mi dico: ma ci fermammo prima, presso un portico umido che s'apriva accanto alla vetrina d'una Coltelleria. Passato il portico fummo in un cortile tappezzato di foglie grasse, con un lavatoio in cui mormorava un filo d'acqua. Ai muri c'erano appese teste di cavallo in gesso, e decorazioni, per lo più a soggetti animaleschi - tanti musi stecchiti che il sole non riscaldava. La madre sembrò diventare una lupa in mezzo a quella vaga e penetrante zoologia - furiosa lupa vestita di nero, con noi a mano e il suo spessore addosso di tormento, non silenzioso, non rassegnato. "Pàpa" scoppiò a urlare, cosi forte che le strappai il braccio. (Lei alzò la mano al cielo, teneva un bigliettino che le avevo già visto) "Pàpa, donna Maria Maddalena Pàpa, Via Torlonia Numero 12". Di colpo vedemmo volti venire silenziosamente alle gelosie, grattarle quasi col battito attento delle ciglia. Da un vano venne fuori un beccaio d'un quarant'anni con una sega per l'ossa in mano, pezzata di sangue. "Lì" disse "donnetta salite questa scala". Da quella parte sentimmo avvicinarsi passi remoti: poi a un balcone s'affacciò una Signora che aveva tre giri di collana attorno al collo. Ci rimproverò con il dito. "Chi grida? Non c'è nessun bisogno di gridare. Dove si fa il bene non s'alza la voce. Siete voi mammina che avete chiamato?"

    "Io, io si. Sta qui donna Maria Maddalena Pàpa...".

    "Perchè avete gridato?" chiese interrompendo, quasi che la madre avesse voluto far male a qualcuno con il chiamo di prima.

    "Oh non so, non so io" disse. "So soltanto che vengo per la Colonia, che sprofondi".

    "Salite allora" disse la matrona. Gemè una piccola porta sotto la sua mano ingioiellata. "Aspettate qui" disse, e ci lasciò soli in un lungo atrio in cui i nostri occhi abbarbagliati andarono scoprendo lentamente un velluto ai muri rigato come un materasso, e quadri - bellissimi mi parvero; e nuove teste animalesche, dipinte.

    Quasi subito un fiotto di sole si rovesciò dentro da una portiera, da una mano grassa balzò un dito che, messo a cappio (lunghissimo dito esangue) chiamò fuori la madre. La portiera s'avvolse sul raggio di sole e Io scopò via con gualdrappe verdi e nere. "No Dormi-Dormi" sussurro io, "sta quieto un po', così, seduto come si deve"; e gli rifilo un potente pizzicotto sotto i panni. Il fanciullo piagnucola un momento; ma il suo lagno, cominciato su questa terra, s'allontana nel solito sogno sospiroso traverso i soliti fiori e i soliti giocattoli cementati e ingiocabili che lui mi contò una volta. Una volta infatti m'aveva narrato di quel suo sognar giocattoli a bizzeffe, tra fiori che lasciavano un odoraccio come se lui stesse mangiandoli; ma che i giocattoli per quanto belli, solo un po' più grandi del naturale (mi disse d'un pianino che pareva una casa), non c'era verso di giocarli. Che parevano pieni di sassi, addirittura fatti di sasso, tanto poco bastava la sua mano a smuoverli, sotto i fiori che s'aprivano e facevan piovere su tutto il loro odore malato. Che lui appena chiudeva gli occhi tornava a errare tra quei giocattoli meravigliosi e inutili, e ch'era come se avesse la bocca e il naso stoppi di fiori troppo maturi, e che talvolta starnutiva e allora si svegliava.

    ↑   

  • RITRATTO DI OMETTO E VIAGGIO - INCONTRI - Terza parte

     

    Lui avviato al suo eterno sogno triste, mi guardo attorno in cerca di cose a cui, come si dice, appendere gli occhi. Ma non scorgo che le cose di prima: pochi quadri (che belli però) capre stambecchi e cavalli di gesso, solo la testa; e il velluto rigato ai muri, tenuto da file di capocchie d'oro. Ed ecco su un sofà, nell'angolo più lontano, uno strano vecchietto che non mi leva gli occhi di dosso. M'afferro alla gamba di Dormi-Dormi e guardo anch'io, con occhio penetrante, quella strana creatura calva come un ginocchio, dalle orecchie immense. Trovavo ben strano che un vecchietto vestisse come una ragazzina: infatti dopo un gran guardare mi fu chiaro che quella era una fanciulla, salvo la testa che era color faccia, ma rotonda e grossa da spaventare.

    "Cos'hai nome?" le chiedo.

    "Io Jolanda Tàbasa ho nome" dice.

    Oh Jolanda. Bel nome ondoso e malinconico, come la figlia del dottore che è venuta in casa una volta che il padre era malato, e m'è parso che nulla fosse più bello di lei nè sarebbe stato mai più bello. Questa invece pareva che con tutta la sua testa incarnasse un'anima, parlasse la lingua dell'anima, di un'anima matura, spiritualizzata; di un'anima, a non temere il bisticcio, senza capelli. La immaginate un'anima calva?

    "E tu fanciullo" chiede, "che nome hai?"

    "Ah io Amabile Tapiletti. E questo qui, ch'è fratello, Alfonso Tapiletti detto Dormi-Dormi". Dissi quella nostra parentela coll'imbarazzo consueto - quel "Tapiletti" che sembra l'eco di una chiacchiera instancabile e fastidiosa. Fortuna che lei Tàbasa si chiamava - ben peggio.

    Mi sorrideva, d'un caro sorriso floscio che volesse venir compatito. Disse "Sai perchè mi mandano al mare?"

    "Anche te?" dico, "ma ci va tutto il Canton Ticino!"

    "Io so di me e di pochi altri. Io mi mandano laggiù per... eh, che il sole mi faccia spuntare i capelli". Sorridendo ancora lo dice per nulla imbarazzata. Solo sembra che mi chiami una lieta, altrettanto orfana compassione di fanciullo.

    "Ma sei sempre stata cosi?" chiedo. "E parrucche, n'hai messe?"

    "M'hanno fatto di tutto, perfino i raggi" spiega, "ma specialmente, fan già molti anni, m'han messo un acido che ha fatto come bruciare quel poco di capelli che restava. E poi vado a scuola... e il Maestro manda a chiamare i miei".

    "Perchè?"

    "Per dirgli che ne sapevo più del necessario. Che sapevo cosa volesse dire "opaco" e "malinconia". E quante altre cose ancora".

    ,Ah è mica male" dico io.

    "D'anno in anno i Maestri non hanno fatto che chiamare i miei genitori e parlare di me smorzando la voce, con un tono che voleva dire "povera fanciulla". Certo che a me queste cose della scuola facevan l'effetto di stupidate. Più la contavo più tutti a spaventarsi. Non era mica un piacere. Sembra che sia stato quel tossico che m'han messo sul capo".

    "Ma in che senso sapevi già tutto? La geografia?"

    "E il resto? I calcoli alla lavagna non solo la geografia; e dei fiorellini, come sono fatti e crescono; e delle bestie - il gatto, la pecora, la tigre. A me quando raccontano una storia par di saperla già. Vuoi sentirne una bella? quando t'ho chiesto come ti chiamavi, ti giuro che mi dicevo: ah costui si chiama Amabile Tapiletti, non può chiamarsi che Amabile Tapiletti".

    "Oh, questa è mica male, è mica male" mormoro.

    Ora quella stanza buia in mezzo al mondo assolato mi faceva paura.

    "Amabile Tapiletti" ripete la Tàbasa con voce calata. "Non spaventarti. Non stringere tanto la gamba del moccioso, potresti svegliarlo. Chissà cosa sogna? A me piace pensare quel che sognano gli altri. I miei sogni li conosco già".

    "Non puoi sbagliarti: immagina che lui sogna giocattoli e fiori che non finiscon più".

    "Ah si? Aspetta, lasciamelo vedere". Viene su di me si direbbe senza muoversi. In piedi è come quand'era seduta, la testa un po' pencolante, greve di pensieri; le braccia lunghe tirate, con mani che sembra spingano in giù due piccole tasche nel vestito viola. Era tutta testa, Tàbasa - come se lassù si fosse raccolta la sua ragione d'essere Jolanda Tàbasa, lasciando al corpo di assomigliare vagamente a tutte le ragazze della terra, con un vestitino color viola e due tasche, chissà perchè fuori posto, in cui nascondere le mani. Venne al fratello senza rumore, come una strana fata saturnale dalla testa di luna. E si chinò sul suo dormire come la staccata figura di un incubo, che io vedessi per potere di doppia vista. Mondo fuori, sole, Tiro Federale! E il padre, in bicicletta e che rastrella il prato, con l'orologio che gli batte addosso, nascosto nel panciotto, vada l'uomo o se ne stia! La Tàbasa soffia in volto all'allontanato fratello tra i sogni, e non sorride. "Ma..."

    "Bè" dico io.

    "Povero, povero fanciullo!"

    "Oh" dico, "povero no. Lui ci manca niente. Anzi è il favorito di mio padre, che ci vede qualcosa di straordinario".

    "Allora metti ch'abbia detto niente" esclama la fanciulla. "Del resto... Tu non spaventi nessuno, no?"

    Dico "questa è mica male, ch'io spaventi adesso".

    Una pesante stanchezza irradiava da quella testa insieme a un barlume da luna o stelle a ore mattutine.

    "Non hai paura di me Amabile?" mi chiede a tradimento. È sempre lì in piedi, di gesso o di stoffa viola, greve zucca pelata ch'è come un cattivo pensiero con le orecchie.

    "A me fan paura le cose che non vedo. Poi, appena chiamassi c'è mia madre che accorre. Si, non ho che da alzare la voce" e l'alzavo davvero, "che chiami: Madre! Mammina!" Gridavo come un dannato, ora, ascoltando paurosamente l'eco del mio grido come la coda di una grossa bestia rôca che galoppasse via traverso portiere e pareti tappezzate. La Tàbasa mi guardava sorridendo, e pareva ora che quel sorriso le spaccasse tutta la testa, cominciasse ad aprirgliela come un frutto o un fiore - una melagranata - s'apre in un punto e, scoprendo gli orli, si svela e s'offre. Nel fuggire strappai quasi la pesante portiera. La luce che incontrai mi rifece franco, ma corsi corsi un interminabile corridoio o salone rosso che fosse, incontrando col volto foglie cantanti di palme.

    Capitai correndo su due fanciulle piccolissime e ingemellate come due chiare gocce di rugiada, che si tenevano per mano come in un quadro. Ma non ebbi di loro che una visione tosto fuggita, da quadro appunto: visione di un soave pallore quieto e calato, di capelli biondi tirati su due facce vaste e d'una luce leale, un po' sciupate già, d'un sciupato da ombra troppo amica, di tramonto. "La Lola" ebbi il tempo di pensare: la Lola figlia di Petronilla, perfida donna che picchia con l'asse della pasta il marito Arcibaldo dal cappello duro. "La Lola del 'Corriere dei piccoli': sui disegni ha la stessa faccia pallida e divorata dagli occhi di queste qui"! ma irrompe in questo pensiero la matrona sonante di gioielli, e con voce di sollecita pietà, pia Madre in chiesa che si volga a cattivi ragazzi di casa povera, mi assale: "Cos'è, cos'è questa famiglia di cantanti? T'ho sentito, t'ho sentito bizzosetto!" E sospirando con occhi cerulei al soffitto: "È proprio più difficile, più disturbatore, fare il bene che il male! Venite venite buona mammina". Era mia madre che chiamava. Ed ecco questa lupa disperata comparire, con la borsetta che sembra un prolungamento della mano, di nera carne grama e di quella foggia che non tramonta mai - lunga moda della miseria. Appare e dice: "Donna Maria Maddalena, mi sembra d'avervi venduto l'uno e l'altro figlio".

    "Non avete vergogna di parlare in questo modo?" esclama la dama con un rimprovero tra chiassoso e affabile. "Andate, mammina; e dite al vostro buon marito" - in faccia alla madre gli occhi fan come rotolar fuori - "che la cosa è a posto". Ci accompagnò fin sulla portiera, entrò, condusse fuori Dormi-Dormi che barcollava. "Adesso metteremo a posto anche te, figlia di Dio" gridò dentro alla Tàbasa. Ci facciamo tutti sul balcone in cima alla scala, ripiombiamo nel luminoso pomeriggio assolato. Donna Maddalena cala un'alta mano sulla mia zucca, la gratta un poco come per baia. "Andate o pargoletti. Dunque fra tre giorni, alla Stazione. L'ora ve l'ho detta".

    "Sprofondi la Colonia e chi l'ha inventata" mormora la madre trascinandoci via. Dentro la Tàbasa aspetta con la testa color faccia e la faccia di luna, nella sala quieta. E quanta ombra c'è - è l'unico pensiero che il sole mi lasci ricordare. ↑   

  • SCHEDE PER UN "VIAGGIO IN ITALIA" - IL MARE

     

    Primi giorni in Colonia, con la frutta di casa che marciva nella cesta... Figurarsi una stazione del treno non più grande di un comune casotto ferroviario, con un solo impiegato che aveva le solite onde d'oro sul cappello; e di trovarsi, sparito il treno urlando in una roccia ch'era li presso, con tutta la magatelleria sotto il cielo del mare, su uno stradone ch'era un solo sfavillo di polvere candida come zucchero che faceva la vista di fuoco. Finalmente ebbimo il mare proprio dinnanzi agli occhi, e quella grand'acqua rinfrescò in essi il duolo del solecchio.

    Di colpo questi occhi sembrarono partire con avvio gemello, volonteroso e incantato, dalla spiaggia immensa di sabbia con qualche roccia breve come un tronco segato a un metro da terra, su per le onde crespe che si facevan sempre più piccole, verso l'alto mare dove le onde non le vedevi più una discosta dall'altra, ma insieme formicolare e ribollire con simmetria. Arrivarono fino all'orizzonte del mare, i nostri paesani occhi portati da San Mamette fino a quell'in capo al mondo; si riposarono sulla lunga nebbiosa linea pianissima, e sprofondarono paurosamente nel cielo, un cielo appena diverso dal mare ma realmente vuoto, d'abisso. Avevamo sott'occhio una bandiera, la più intonata che ci sia, fatta di cielo e di quella grande acqua del mare; e se non ci fossero venuti appresso a darci duri strattoni nelle costole, ad allinearci, a chiamarci per nome, saremmo stati li un bel pezzo a bocca aperta, su quella strada di Finalpia che non sentivamo più sotto i piedi. ↑   

  • SCHEDE PER UN "VIAGGIO IN ITALIA" - DIMMI LA TUA FORZA

     

    Un galuppo di Sementina - Cavallero era di nome - incuteva rispetto per una sua forza asciutta e gonfia; ostentata poi con pose senza fine, in mezza alla marmaglia che gli sgrappolava attorno tutta beata e formava come dei mucchi bianchi e irrequieti. In cima a quei mucchi come un dio il galuppo dominava ogni cosa, e teneva muti discorsi a suon di muscoli fatti vedere e fatti gonfiare, e di qualche dura pàcca che allegramente distribuiva, e che i mocciosi avevan l'aria di incassare riconoscenti, dichiarandolo cosi più Capo che mai.

    Quando nell'ombrosa cantina di cemento ci fecero passare a uno a uno, e sotto lo sguardo freddissimo, a pesce, di Don Pinoja, il bagnino Pasquale ci fece venire a una specie d'incudine (proprio la stessa forma), non capimmo che accidente ci si volesse far fare; fuori mormoravano di taglio dei capelli a zero, di punture contro malattie eccetera; ma dall'uno all'altro corse la voce che si voleva provare la forza di ciascuno di noi e allora si videro le mani farsi su a pugno, e il muscolo sopra il gomito diventar tondo e venato, duro.

    Io non capivo che senso ci fosse a provare quella forza che dicevano. E meno ancora capivo in che modo l'avrebbero potuta provare, a meno di non metterci uno di fronte all'altro e di farci l'un l'altro addormentare a suon di cazzotti.

    Invece l'istrumento c'era, una specie di termometro rotondo, da prendersi in mano e da schiacciare; e mentre Don Pinoja sempre in piedi borbottava a vuoto e pareva soffocasse tra le guance cascanti e smorte tutto un rosario di gonfi e di fiaterelli, Pasquale ci incoraggiava con qualche bel motto, prendendoci per la pelle del collo già a due metri di distanza con le sue manone e portandoci fin sull'istrumento.

    "Dài tu Carnera" diceva. E ne invitava un altro "sotto, Bracciodiferro". Frasi che ricordo attorno al misura-forza, con lui Pasquale che pareva fare un grande sforzo a tenersi e a non afferrare l'istrumento e a non farlo scoppiare come un salamino con furia bieca. (Proprio doveva dominarsi bene per impedirsi di sfrittellare l'istrumento, che a malincuore ci consegnava con un sorriso di rimpianto). Una suora impenetrabile teneva un taccuino appoggiato al muro, con la lista di noi, e scriveva accanto a ogni nome le minuscole cifre che il bagnino le dettava con aria di commiserazione per la debolezza dell'esaminato. Ricordo che Pasquale scriveva le stesse cifre, con la matita copiativa, sul petto nudo di ciascun magatello, due dita sotto il cuore, dove ogni uomo ha come un palpitare malato.

    A me Pasquale palpò il braccio con tanta allegria che sentii crac dentro nell'osso. "Ah ah!" rise il bagnino "adesso vediamo cosa fa il Maciste". Eh, il Maciste prese il misura-forza e timidamente lo premè, come si preme con ansia di scaldarlo, ma non tanto da soffocarlo, il tremulo uccellino tramortito delle campagne.

    Ecco, Pasquale fece cosi il diavolo che guardai di sfuggita Don Pinoja, temendo che intervenisse e rimproverasse quella smodata allegria. "Nove!" urlò "Nove il Maciste! Va, ma va là!" M'impresse un movimento tale che piombai arrancando sul magatello che mi precedeva, e stetti ad ascoltarli che si vantavano delle proprie cifre con più vergogna che se avessi accoltellato un uomo dormiente.

    Ma tacquero. Dal silenzio capii ch'era il turno di quel di Sementina. Il galuppo Cavallero prese in mano l'istrumento con una sorta di trionfo negli occhi, e fissò lentamente i presenti gonfiandosi il torace con un fiato lungo come un vento. Poi di scatto, a tradimento quasi, come ci si vendica di qualcuno o si riesce a metter le unghie su un bramato nemico, lo spremette col pugno e con l'intera faccia, che si raggrinzì e parve volgersi al pianto o a un altissimo ribrezzo. "Trenta" esclamò piano, con gioia, il bagnino. Era il trenta, se ben ricordo, la cifra massima cui giungesse quell'istrumento tutto totalitario. (Il cuore cadeva in me, e faceva tremare il 9 che m'avevano scritto addosso).

    E il Cavallero si ebbe dal bagnino un pugno da ammazzarne due - un pugno generoso, di riconoscimento; paterno se non fraterno, pieno, a modo suo, di delicatezza. ↑   

  • SCHEDE PER UN "VIAGGIO IN ITALIA" - SAPONE E CORDA

     

    Sapone e corda: corda tra i pugni, tra i denti, da morsicare volendo: e, sotto, grandi massi vetrati che i piedi ci slittavano. Il mare ti veniva sugli occhi cosi borbogliante e sconfinato da tramortirti. Liete onde lievissime vi si strappavano, e ti schiaffeggiavano con un murmure che sentivi solo tu, afferrato alla corda, ballando. Tra le spume l'Istituto appariva lucido come un edificio sognato, li sul bricco, e le suore ci stavano a pesar calamaretti, strozzate nei cappelloni, in pomeriggi d'ombra quando nessuno aveva la forza d'aprir bocca. Sulla spiaggia passava Pasquale pesantemente, tirando ricci di mare alle gambe delle figliole, e dietro gli venivano torme di magatelli incantati, a bocca aperta, piccoli e grandi. Calata la sera, il mare alzava la voce.

    Ah che giornate! Bricchi gialli, bricchi rosa: e piante grame tra i bricchi, come grossi funghi, o tamarindi. Passava il treno, tuf tuf, a testardi vagoni merci che scorrazzavano; dai gabbiotti i conducenti ("come ingannare il rombo nel quale voliamo a picco sul mare e anche domani voleremo sul mare?") ci davan dell'illustrissimo con male parole. Pasquale alzava al cielo della sera le sue maledizioni affettuose, calciando i ritardatari con quei suoi piedi di dura e nuda carne, e la sabbia era fuoco e le Suore facevan muti viaggetti fino alla Chiesa stellata, per la Benedizione. Dormi-Dormi! dov'era?

    Un altro treno. E l'onore di venir cazzottato da Pasquale, che s'era fatto can di pastore e rincorreva i più lontani magatelli, quelli caparbi a sbandarsi verso I'infinito; e correndo graffiava coll'unghie nuvolette di sabbia. E i vapori? Mille n'ho visti. Bassissimi sul pelo dell'acqua passavano i vapori della Compagnia, e Pasquale narrò un giorno che suo fratello era là a fare il Capitano, e aveva una scimmia vestita da frate che gli accendeva la pipa. Boia d'un Pasquale! lui aveva parenti dappertutto, perfino nell'aristocrazia dappertutto, fuor che nei luoghi dove i poveri bagnini rincorrono i magatelli a piedi nudi e chiaman cane il destino. ↑   

  • SCHEDE PER UN "VIAGGIO IN ITALIA" - IL PASTO

     

    La campanina sottile appesa al piccolo arco di trionfo suonava a galba con certi tòcchi tremolanti, indecisi, che già da soli annunciavano l'abbondanza del mangiare che ci sarebbe stato, e che non salivano più d'una spanna in quella tremenda aria calda. Ma se il nostro orecchio affinato dalla fame non sentiva la campana, un certo sussulto nella magatelleria (dai più vicini all'Istituto fino a noi ch'eravamo in riva al mare), gridava che l'ora sospirata era giunta. Cessava come d'incanto ogni gioco, anche il più appassionato; e a passo di corsa li vedevi tutti avvicinarsi alla salita verso lo stradone, e disporsi pazientemente in bella fila ordinata, a due a due, sotto i comandi di Pasquale. Una marcetta silenziosa ci menava fin davanti all'ala ovest del Palazzo, dove finiva la terrazza; non appena Pasquale dava un certo segnale, sembrava che i nudi galuppi ribollissero intorno alla porticina che si spalancava su una scala ombrosa e stretta, liscia come la scala di una galera.

    Prima veniva Cavallero, che sin dai primi giorni si era accaparrato il diritto di quella precedenza con una tattica di cui ammiravo la discrezione e la laconicità, tattica tutta cose da cui mi tenni accuratamente lontano. E procedeva per primo con studiata lentezza, fermandosi talvolta per Io spazio d'un secondo, li in piedi su uno scalino, come uno che voglia stravincere; chè chi sbadatamente si fosse arrischiato a far giù un paio di passi davanti a lui si sarebbe sentito prendere per la pelle della schiena, e per quel pasto sarebbe rimasto fuori a singultare sulla terrazza. Allora vedevi quei marmocchi mossi da una fame impietosa fermarsi come agnellini dietro Cavallero e studiargli sulla nuca o lungo la schiena percorsa da fremiti la voglia o meno di andare avanti. Finiti questi piccanti scherzetti sulle scale, si irrompeva in una lunga cantina squallida come una sacristia, dove l'odor del fritto ne pareva addirittura il rumore: quel ronzare come di pioggia rabbiosa in cui bidoni di pesciolini diventavan secchi secchi e color biondo.

    Non c'eran posti speciali per l'uno o per l'altro: ci si sedeva dove si capitava. Giù in fondo avevano drizzato su un palchetto un tavolo per i sorveglianti, squisitamente allegorico, chè mai ci vidi, nè alcun magatello ci vide, la benchè minima autorità dell'Istituto. Serviva Pasquale, che con una specie di bidone del bucato errava tra i tavoli e rovesciava sul piatto di ciascuno una pioggerella di pesciolini da un mestolo bucherellato. Nè si limitava a servire cosi come vi dico: ogni tanto cavava dal bidone un pesce un po' più polputo, dorato, e lo faceva dondolare davanti al naso di questo o quel magatello, chiedendo "Lo vuoi?" I primi tempi quei poveri ignari dicevano "Eh..." spalancando la bocca; più tardi, dopo aver visto parecchie volte che quel pesce scompariva di colpo nella bocca stessa dell'offerente - Pasquale - capitato a me l'invito e fatto furbo, risposi "No grazie" cos'avreste detto voi? Ma naturalmente Pasquale aveva disposto in altro modo, cosi che il pesce mi volò in faccia più lesto che se fosse ancora stato libero nel gran mare, e m'entrò in un occhio. Certo questo pesce volante non fu l'ultimo; da quel giorno dovevi ingozzare i pesciolini guardandoti in giro con gli occhi ben aperti, chè l'aria del refettorio era percorsa da questi uccelletti marini che i galuppi si tiravano addosso in tutta cordialità.

    Da mangiare c'era quasi sempre pesce e basta. E se dico pesce pensa ch'eran solo pesciolini, che noi stessi pescavamo; il mare n'era tanto ripieno che nemmeno ti divertivi più a immergere nell'acqua le reticelle che ognuno di noi si ebbe in consegna, poichè le ritiravi immancabilmente piene rase di queste mosche del mare che una Suora robusta passava poi a raccogliere con una carriola.

    Ho in mente di aver visto quasi a ogni pasto, seguendo gli sguardi e il silenzioso rispetto di tutti al posto di Cavallero, il galuppo di Sementina fregarsi le mani nel petto nudo - dove il numero 30 scompariva lentamente - per dar tempo a tutti quanti di scorgere sul suo piatto una montagna, una vera valanga di pesciolini; e di vederlo pescare con sùbiti tuffi autoritari altri pesci dai piatti dei vicini, ai quali tirava in faccia a mo' di lesto e spiccio ringraziamento la testa del pesce rubato, staccata d'un morso.

    Finito il pasto, quei gentiluomini nudi del refettorio (Pasquale se n'era andato da tempo, finita la distribuzione) si mettevano insieme a certe porcherie corali, dandosi la voce. Oh, povere porcherie: canzoni sgangherate, persecuzioni contro qualche magatello piccolissimo; oppure le rosse parole che Cavallero tra lo stupore generale osava rivolgere alle Suore della cucina, mettendosi le mani a portavoce davanti alla bocca. Ma quelle non sentivano più che se fossero state in cielo invece che silenziosissime all'angolo d'un tavolone. Le vedevi da un finestrino che c'era. Mangiavano pulitamente i loro pesciolini con bocconi sospirosi come baci, le Suore; vestite con tanta cura e cosi infagottate da dar fiamme anche a noi ch'eravamo press'a poco nudi.

    Poi, in attesa di Pasquale che ci menasse altrove per la siesta sotto le tamerici, una gran sonnolenza calava sull'assemblea; e nella mistica ombra del sottosuolo mille tafani arditamente saettavano ronzando sulle teste mozze dei pesciolini, e il massimo segno di vita che dessero i magatelli era qualche abbandonato gesto della mano o del braccio, inteso a scacciarsi i mosconi di dosso. Cavallero aveva la faccia accesa come se avesse bevuto; ma anche lui pareva incline a dimenticare tutte queste cose del mondo che fanno andare in bestia un individuo. Tanto che una volta vidi un magatello vicino a lui poggiargli la testa sulla spalla e addormentarsi, e (proprio non devo aver visto male) Cavallero tenersi fermo fermo, le mani sulle ginocchia e il bianco degli occhi color sardina nell'ombra: vivo quel tanto da far sapere che lui era vivo, ma non più minaccioso d'una argentata e piccola sardina del mare. ↑   

  • SCHEDE PER UN "VIAGGIO IN ITALIA" - PASQUALE

     

    Ti dicevano "Adesso vai in mare" e, cosi abbandonato sulla sabbia com'eri, tutto un brivido di caldo, vedevi il loro dito indice alzarsi nell'infinito azzurro e segnare il mare, che facessi svelto a correrci! Ti trascinavi abbacinato alla gomena impiombata d'acqua che rimpiccioliva fino a una botte che galleggiava sulle onde, e alla quale si affrancava. Allora ti muovevi piano piano, i tuoi piedi palpavano i massi verdi con tanta cura; ma fatalmente le dita andavano a scricchiolare in tanti molli e lucidi crepacci... Giunto che l'acqua ti lambiva l'ombelico, un masso più traditore degli altri ti volava via sotto i piedi: allora facevi un bel giro completo attorno alla corda, e quando la bocca affannosa tornava a mordere nell'aria che pareva vuota, ti rimbalzava nello stomaco, come in un locale sonoro e nauseato, una piccola onda dell'amaro mare. Tra i rigagnoli che grondavan giù dai capelli vedevi mare e terra diventati enormemente silenziosi, malgrado che i magatelli brulicassero all'ingiro e che ognuno ne chiamasse instancabile un altro, come sempre.

    Una volta tornai vivo col serpente salato nelle viscere, e la prima cosa che vidi fu Pasquale che sorgeva a metà vita dal mare: una visione che ho qui davanti agli occhi. Avanzava su Pasquale come un Nettuno scardassato e sentimentale, con quegli occhi troppo lontani uno dall'altro e la bocca aperta in una pelle spessa e gonfia, inespressiva come il buco del salvadanaio, e un chiaroscuro di muscoli bronzei come il deretano di un cavallo. Benchè distante un due sassate da me, in alto mare quasi, pareva li da toccare tant'era grande e monumentale (gli occhi non glieli vidi, c'era il sole dietro).

    Ed ecco, avvenne come se dall'abisso gli avessero appioppato un calcio straordinario. Saltò fuori tutto diritto, a precipizio, le mani incollate alle coscie; poi si piegò, fece un guizzo in aria...

    Sprofondò nel mare a testa in giù col rumore di una vetrata infranta. Non restò che un ovale di schiuma che cominciò ad allungarsi col ritmo delle onde verso riva.

    Passa un minuto, ne passa un altro. Ma... Pasquale!... (che nessuno abbia visto?). Non ho la forza di sguazzare a riva. Li abbrancato alla gomena, in punta di piedi per non fare la solita cieca giravolta, osservo la spuma di Pasquale che balla. Addio adesso. Ehi voi magatelli! Cavallero... (No Cavallero: se fosse qui in giro, la prima cosa sarebbe di passarmi un cazzotto, o per bene o per male. Lui, si sbaglia anche solo a chiamarlo). E poi no, proprio Cavallero deve accorrere: lui forte, nuotatore e fanfarone: CAVALLERO! (Che voce sottile e strangolata ho) CAVAL...

    Il mare trabocca nel mio grido, mi livella sotto la sua calma lunghissima. Di nuovo devo compiere il giro sott'acqua, arrancare con i piedi, abbracciare perdutamente la gomena; poi deglutire il serpe caldo e alcalino che rovescia lo stomaco.

    Si ma... e Pasquale? C'è nessuno sul mare... Adesso qui mi annega vuoi vedere che proprio a me tocca di vederlo andare? (che silenzio terra e mare) CAVALLERO! Povero Pasquale! e la scimmia - vestita da frate - e il fratel suo Capitano, i pesciolini, e il gelato a Finalmarina nella conchiglia, e lui che paciocca quella del Chiosco che tiene un libro intitolato "Poesie d'amore" - quanto costa già? tre lire, no tre lire e mezza. Lo voglio comprare. Lo voglio comprare quel libro, c'è su la chitarra a colori sulla copertina e tanti nastri rosa, e poi ci dico che ho solo due lire in tasca. Ma Pasquale, Pasquale!... Dio mio, com'è il ritornello?

     

    San Saputo
    San Goduto...

    ah

    San Benvenuto
    fammi trovar quel che ho perduto

     

    è ben così che si canta quando s'è smarrito qualcosa? Pasquale! -

     

    San Benvenuto
    fammi trovar quel che ho Perduto -

     

    e poi, cosa ci salta in mente, io non c'entro - io visto niente io, adesso la sarebbe mica male che venissero a imbambolarmi...

     

    San Benvenuto
    fammi trovar quel che ho perduto,

    e

    anderemo all'Osteria
    beveremo il vino bianco...

     

    è cosi, no? che cantavano con bella voce quei fascisti e spuntava la luna e Pasquale ha detto che l'Italia sempre vinto ogni battaglia o guerra e che l'Elvezia l'era come dire un niente del tutto - Dio Dio, Pasquale adesso... CAVALLER! (un uccello d'ala larga cala sulla botte in fondo alla gomena e la becca).

    "Eilà!"

    Partito. L'ho preso ormai. Il galuppo m'è giunto vicino e me l'ha dato nelle costole.

    "Giù... Giù! Là..." balbetto; e mi volgo al mare...

    Bè, era ben lì, Pasquale. Proprio come prima, un monumento enorme di bronzo che pareva da toccare ma c'eran tante onde tra me e lui. Dietro a pel d'acqua un vapore gli entrò lentamente in un orecchio e poi dopo gli usci dall'altro orecchio e lui Pasquale alzò al cielo una mano che teneva un riccio di mare e rise a Cavallero. L'uccello si levò dalla botte e fuggi con un grido sinistro (ricordo che l'ombra mi passò sulla mano bianca che non mollava la corda). Cavallero maledì l'uccello perchè lui malediva sempre ogni cosa del mondo poi fece segno a Pasquale che gli gettasse il riccio e andasse a cercarne un altro in fondo al mare. ↑   

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