ROSSO DI SERA

Felice Filippini - Rosso di sera

L'Archivio Felice Filippini propone:

Rosso di sera - Racconto di Felice Filippini in 9 episodi settimanali a partire da lunedì 11 novembre 2013 fino a lunedì 6 gennaio 2014.

Il testo dattiloscritto di Rosso di sera (1943 ca.) è custodito nel Fondo Filippini presso gli archivi di Cultura Contemporanea della Biblioteca Cantonale di Lugano. Esso consta di 16 pagine, tutte segnate da numerose varianti di mano dell'autore.

 

  • ROSSO DI SERA - Primo episodio

     

    Ora racconterò come avvenne che il nonno si lasciò prendere da quelle sue idee. Lui era al monte già da tempo, colle due o tre vaccherelle, e nei giorni dispari la zia Aglae staccava lo zaino dal chiodo, lo apriva e diceva “Cosa devo portare, stavolta, al nonno?” Poi qualche cosa si trovava sempre: un salame, un pezzo di formaggio, due pagnotte a righe e il fiasco di vino, proprio uno solo e in più ci mettevano anche un po' d'acqua, l'ho visto io.

    “Chissà perché ci mettono anche l'acqua?” pensavo: mi pareva che si facesse a qualcuno un po' di torto, non so se al vino o addirittura al nonno. E si che in cantina ce n'avevano, di vino: parecchie botti, accovacciate in quello scuro umido che sapeva di funghi; ma io in cantina ci ero andato di rado, nascondevano il chiavone perché il nonno, lui, avrebbe passato la vita laggiù sdraiato tra le botti, col suo sorriso un po' impacciato e quei suoi occhi mesti che si muovevano lentamente e ci mettevano un pezzo a trovare la nostra faccia e il nostro rimprovero.

    E ogni giorno dispari la zia non si vedeva per casa, fino al pomeriggio, quando lei sbucava dal portico collo zaino vuoto, di ritorno al monte, e non si sentiva venire perché andava sempre a piedi nudi. Era già pomeriggio, allora, e prima di mettersi a far qualch'altra cosa lei si sedeva nella corte sopra un pietra, si strappava il sacco dalle spalle e lo gettava sempre tra l'erba (“forse le secca di far sempre su e giù dalla montagna”, pensavo) poi appoggiava la testa sulle mani e sprigionava tre o quattro sospiri voluminosi e disperati, e mormorava “povera Aglae! Povera Aglae!” Si sedeva all'ombra sotto il pero che stava proprio dinnanzi alla casa, e sospirava e diceva “Povera Aglae!” poi taceva e il sole girava lentamente finché lambiva i grandi piedi nudi della zia che allora se n'andava in faccende e sulla pietra dove s'era seduta restava un po' d'umidità che poi evaporava lentissima.

    Forse tutti si stancarono di avermi sempre tra i piedi, così cominciarono a dire “Perché il Marcellino non andrebbe a tener compagnia al nonno?” Lo disse prima la nonna, poi le zie (solo l'Aglae non disse nulla) poi anche gli zii, e infine lo dissero talmente tutti che lo dissi anch'io: “Va' bene, andrò ai monti!”. E quella mattina della partenza mi pareva di sentirli venir su in tanti, dalla scala di legno, bisbigliando chissà che parole; e poi quando spalancarono la porta ed entrarono in quella mia piccola notte della camera e misero il candeliere sul comò, il cuore si mise a tremarmi per quella storia che s'incominciava per davvero; ma quelle genti fruscianti e bisbiglianti s'assottigliarono e da ultimo restò la zia Aglae, grande e verginale; e non fece tante parole. “Ninetto” disse soltanto, e si chinò su quel letto di ferro al quale aderivo disperatamente, come se una forza mi attirasse dal di sotto, e intanto muovevo su e giù le dita dei piedi e pareva di avanzare come a nuoto in altre lenzuola più vaste, delle porpore caldicce alle quali la mia guancia si soffregava con perduta tenerezza. E la zia chissà perché mi prese la faccia nella sua mano grande e dura, e la strinse, premette le guancie e intanto non mi guardava, stava ferma e diritta, solo la luce si muoveva in lei, per via della candela; poi si affrettò a tirarmi fuori dalle coperte, con gesti che passavano come ventate vicino ai miei occhi, e allora sentii, lontano, sulla terra, i suoi piedi nudi.

    Faceva ancora notte alta, fuori dai vetri, ed è allora che si stringono forte i denti e si trema, ma non di freddo: per lo stupore, forse, si trema; o per una imprecisata apprensione. “Va' innanzi” disse la zia quand'ebbe terminato di vestirmi; poi prese la candela e me la sentivo venire, dietro, a passi un po' sonnolenti; e la scala scricchiolava e gemeva (era di legno) e la cucina, col focherello già acceso nel camino, era anche lei nella notte un'altro spazio vicino al sogno.

    Fuori invece c'era un po' più di vera luce, luce della notte non di stelle o di luna, ma di cose che riflettono ancora, che riescivano lo stesso a segnare degli intervalli nel sogno, degli spazî in cui s'incamminava con istintiva fiducia, portici e viuzze e scalini che la zia palpeggiava coi suoi grandi piedi molli. E come stanno fermi, allora, alberi e cespugli! Nemmeno una foglia si muove, forse perché non c'è filo di vento, e le farfalle non ci son più, e nemmeno le lucciole, solo cose severamente immobili c'erano; poi ci fu la veemenza del riale sempre più vicina, sempre più terribile, e allora le fronde in cima alle piante, nere, si raddrizzarono: pesanti uccelli volarono via, e altri ne vennero, merli, forse: vennero e si posarono proprio in cima alle piante, e le alte fronde s'inchinarono ancora ed eravamo ormai sul ponte. L'acqua sotto passava con precisi riflessi, rifletteva la vera luce della notte, e passava in cupole ondulate, senza spruzzi, che a seguirle lo sguardo s'infrangeva sul ponte sotto i nostri piedi; e io e la zia Aglae e il ponte si risaliva lenti verso la valle, ma era soltanto per effetto dell'acqua che andava per in giù.

    La montagna coperta di boschi ci accolse e la zia taceva sempre e andava come una capra, saltava di sasso in sasso e intanto lo zaino le batteva sulla schiena ma lei non apriva bocca lo stesso - la strada saliva rapida e il paese che si scorgeva tra gli alberi si accovacciava sempre di più. Il bosco era anche lui immobile ma aveva un suono profondo, ma forse non era che il rumore del nostro sbigottimento. “Di' qualchecosa!” implorai “Zia! Fammi sentire la tua voce!”

    Quella si fermò lentamente e si sedette vicino ad una piccola fontana: “Facciamo una sosta, ninetto” disse; e anch'io mi accovacciai presso di lei, giù col cuore che ci ballava nel petto a mandava ondate di sangue che venivano a spegnersi sotto l'unghie delle dita; l'alba avanzò dal terreno fatto a monticelli, che si perdeva nel bosco. ↑   

  • ROSSO DI SERA - Secondo episodio

     

    Anche se il cielo, specialmente, era diventato chiarissimo, non lo vedemmo che dopo, quando ebbimo ripreso a salire e c'era sempre un segno preciso e nero che si disegnava contro lo scorato chiarore del cielo, e non eran ramaglia o fronda: un segno ben preciso, quello, da non potersi confondere: una croce. Andava e veniva fra i tronchi, e a seconda della posizione del sentiero l'avevamo da questa parte o da quella. La zia forse non l'aveva vista, s'arrampicava come il solito con slanci che le correvano per tutto il corpo e quel sacco che ballava sulla schiena e quel suo silenzio in cui forse lavorava vagamente di pensiero, a lunghi tempi; quando la croce si ebbe fatta grandissima e la incontrammo, finalmente, aprì la bocca e disse “Sai perché hanno messo questa croce?”

    “No, zietta” risposi “perché ce l'han messa?”

    “Perché il Paolo è caduto dal precipizio” fece la zia “sai, il Paolo dei Gabàni: qualche anno fa”.

    “Ma qui non ci sono precipizi” obbiettai “ è in salita ma senza dislivelli: se uno cade rotola un po' e basta”.

    “Il precipizio è dall'altra parte della valle” disse la zia senza guardarmi, mentre seguitava a saltabeccare sulle pietre del sentiero e lo zaino le volava, dietro, come una specie di ala pesante e un po' morta.

    “Ma allora” dissi io “perché la croce non l'han messa anche lei dall'altra parte del riale, proprio sull'orlo del burrone?”

    “Perché laggiù non ci son sentieri, ninetto” rispose la zia “né strade né sentieri, solo precipizio: per questo il Paolo dei Gabàni è scivolato”.

    “Potevano almeno piantare la croce su quella montagna invece che su questa” obbiettai ancora, testardo.

    “Tu non sai, Marcellino!” disse la zia dopo lungo silenzio “laggiù non ci sono strade, nessuno passa: chi avrebbe potuto vedere la croce? Qui invece è strada molto battuta: ci si può segnare, qui, quando passando s'incontra la croce”.

    Tacque e tacqui anch'io e guardai tra gli alberi la scarna montagna senza strade né piste, solo col suo precipizio violaceo segnato di luci scolorite, luci del vuoto sonante e mortale, e c'era così anche il Paolo dei Gabàni nell'alba che mitigava la paurosa presenza delle cose, quello sfortunato, oltre la zia Aglae grande e verginale che palpeggiava la terra con quei suoi grandi piedi nudi e saliva a balzi; vera capra, l'Aglae, coll'ala dello zaino che batteva, e il Paolo cadeva lentamente, si adagiava nelle arie soturne della valle, si coricava in quel suo vero riposo, giù in fondo dove l'acqua fruga clamando tra le rocce. Tutto va' a finire nella terra, ben dentro, anche la croce era infilzata per terra, e ci son pietre grandi come case, sotto, sepolte a dormire, tante cose, bestie sentimentali e pietre e morti, ci sono, in questi spazi che s'aprono nel disotto, dove tutti si dovrà pur finire, accanto alle grandi lapidi dove non c'è scritto ancora nulla. Anche la zia-capra Aglae la frugava, la terra, coi grandi piedi fruscianti, era già un po' vicina alla terra, lei, con quel suo silenzio e quei suoi sospiri pesanti, la testa fra le mani, quando tornava dal monte e si sedeva sulla pietra e mormorava “Povera Aglae! povera Aglae!”. Un uomo ce l'aveva anche lei, la zia-capra, il Toto: un giovinotto sempre sul punto d'arrotolarsi le sigarette colle mani, quelle sue mani piatte e unghiute che ci davan sempre delle sberle di fantasia, benché noi piccini veramente non gli si facesse nulla di male. Loro, lui e la zia, non si dicevano gran che, come amanti; soltanto non si nascondevano mai bene, ci si arrivava tra i piedi senz'accorgersi, ogni qual volta volevano rimanere soli. Quando la sera si usciva per andare a fare un ultimo bisogno, loro stavan sotto il pergolato, in piedi, fermi e silenziosi; si vedeva soltanto il forchello della sigaretta andare su e giù, nella notte. Una volta hanno combinato una cenetta, una piccola festa solo per loro due, quegli amanti poverelli; e avevano messo insieme in una borsa pane e sardine e una bottiglia di vino; la zia invece m'aveva mandato a comperarle una gazosa, a lei il vino non piaceva. Immaginai che sarebbero andati al solito posto, nel boschetto dietro la Cappella: così io vi corsi prima di loro e mi arrampicai sopra un albero.

    Arrivarono piano piano lungo la strada, tutt'e due un po' straniti, e ho guardato i piedi della zia e ho visto che si era messa le scarpe. Entrarono nel boschetto sempre silenziosi come il solito, si sdraiarono per terra e la zia dispose la merenda tutt'attorno sull'erbetta, poi chiusero un po' gli occhi e pareva che dormissero, solo ogni tanto il Toto lavorava di dita attorno alla sigaretta, ed era già sera ma quelli non s'eran più mossi.

    “Vogliamo mangiare?” chiese la zia “o dobbiamo aspettare ancora un po'?”

    “Non ho fame, ancora” disse il Toto “oggi son rientrato tardi, e la vecchia m'ha fatto polenta e cotechino, roba che resta sullo stomaco; aspettiamo ancora un po' di tempo”. La zia passeggiava cogli occhi lungo tutti gli angoli del boschetto e scrutava i tronchi e coglieva fili d'erba e se li metteva in bocca poi faceva su e giù colla testa e l'erba oscillava nell'aria. A un certo punto alzò la faccia al cielo ed io temetti che mi vedesse: ma i suoi occhi erano chiusi, e sentii che forse diceva “Povera Aglae!” ma pianissimo, per lei sola. E finalmente si rivolsero alla merenda e il Toto divorò quasi tutto e succhiava intanto lunghe sorsate di vino. La zia era come un po' smarrita, ma beveva anche lei la sua gazosa, forse un po' in vergogna perché non c'era bicchiere e bisognava bere a canna. L'ombra aveva già acquietato il boschetto, e quei due quasi non si vedevano più; poi la sera divenne più forte di loro e andarono via, lui che si faceva una sigaretta e l'Aglae un po' zoppa, perché le scarpe le facevano male (andava sempre a piedi nudi!). Io sull'albero aspettai un poco - ci fu una biscia che stritolò qualche fuscello, fra l'erbe, poi tesi l'orecchio ma non c'era proprio più nessuno. Per terra trovai la bottiglia di gazosa ancora piena a metà. Ne bevvi un sorso poi la feci sgocciolare per terra perché non avevo sete; e anch'io m'incamminai verso casa.

    La zia viveva quel male sottile dell'amore coprendolo di silenzio, e anche ora taceva, balzando da un sasso all'altro del sentiero; e l'alba ci trovò così, lei silente e quasi severa che saliva la montagna e io dietro che rompevo il ritmo di quel suo camminare a slanci meditati, e quasi lagrimavo di fatica, ma non avrei voluto che lei mi vedesse. “Siamo arrivati” disse l'Aglae, e infatti, disseminate lungo una falda del monte si distendevano alcune capanne, molto distanti una dall'altra, in solitudine assoluta.↑   

  • ROSSO DI SERA - Terzo episodio

     

    La nostra era più in alto, in mezzo ai larici. Il vecchio Peo stava accucciato sopra una panca di sasso, appoggiato al muro della sua capanna e non faceva nulla, stava immoto, colle mani sulle ginocchia; poi alzò la sua faccia larga e piatta e i suoi occhi mesti ci cercarono con mitezza lungo il sentiero, sotto le piante.

    “Guarda!” disse “hanno condotto anche te, magatello!”, e non disse più niente, tutto tornò tranquillo in lui e tutt'attorno. Io m'ero seduto sull'erba ai suoi piedi a riposare, e mi parve allora di sentire l'odore del nonno, un odore antico e un po' soffocante, come quando si soffia nel fuoco e un po' di cenere ci piove sul volto. Lui sembrava lì accucciato da tempo immemorabile, davanti alla capanna, e il suo sguardo queto rispecchiava le cose che forse non vedeva nemmeno. C'era sole alto, ormai, e la fatica del cammino fatto si spegneva nel riposo sull'erba secca e bruciata. Forse m'addormentai. Al risveglio il vecchio non s'era mosso dalla pietra e la sua ombra s'allungava verso il ciliegio selvatico. La zia apparve sulla porta della capanna, e aveva in mano il fiasco di vino. Stette lungamente ferma sulla soglia e pareva un po' stupita - muoveva solo il fiasco con lentezza, tenendolo per il collo: si vedeva bene ch'era vuoto.

    “Accidenti, Peo!” disse “Accidenti” E diceva nient'altro, la zia, guardava il nonno con stanca meraviglia e muoveva solo il fiasco, adagio, a completare il suo rimprovero. Poi strinse le fibbie dello zaino alle ascelle, depose piano il recipiente sulla pietra accanto al vecchio e si sprofondò nell'ombra della valle. L'ombra annegò il sole serale che illuminava la capanna, io alzai gli occhi e anche il nonno si mosse un poco e ci guardammo lungamente. E il vecchio Peo alzò la mano al cielo e rimase come in ascolto: “Tuona in Val Canaria” disse infine.

    Io guardai quella scura valle e porsi l'orecchio ma non sentii che la malinconica voce delle selve; era già notte dall'altra parte, dove la Val Canaria incideva profondamente il grande monte Arbario: “non mi pare” dissi “sarà la zia che ha mosso un sasso nel scendere”.

    “Tuona” insisté il vecchio “la conosco io la Val Canaria”.

    “Vuol piovere, forse” risposi “verrà un temporale, è per questo”.

    “Verrà sul serio il temporale, un giorno o l'altro!” disse il Peo “allora vedrai i macigni passar dinnanzi alla capanna e salire fino alla selva del Cello”.

    “Lo dicono anche giù a casa” feci io “che forse un giorno cadrà il monte Arbario; ma ci credi, tu, a queste storie?”

    “L'Arbario è vuoto, in mezzo” disse il nonno “è vuoto come una campana: è marcio! Quando cadrà non potremo più nasconderci in nessun posto. Ci seppellirà tutti quanti, quel boia!”

    Il grande monte Arbario si arrotondava sotto il cielo della sera, smisurato, e su verso la cima le nebbie tristi correvano come incalzate dal vento; ma alle Fontane dove c'eravamo noi non c'era vento, nemmeno aria c'era, solo spazio vuoto che s'apriva sopra di noi come un abisso. Il nonno abbandonava gli occhi in quel vuoto immenso e mormorava “È cavo, quel boia! Rimbomba perché dentro ci sono cascate e sassi che rotolano e l'ira di Dio!” La notte lo aveva nascosto, il nonno; non si vedeva che la sua testa col cappellaccio contro il cielo, giusto all'altezza del monte Arbario.

    “Ma allora” dissi “nonno: potrebbe cadere stanotte, il monte!”

    “O questa o la notte che viene” rispose il vecchio Peo “è maturo per cadere, il monte Arbario! Ma vieni ora ninetto” aggiunse quasi subito “andiamo nel canadà”.

    Pensai: “Che diavolo dice, il vecchio? Nel Canadà vuole andare.”

    “Ah magatello!” esclamò quello, benché io non avessi detto nulla “non lo sai, tu, cos'è il canadà! E dove credi che si dorme, qui al monte!”

    “Sul fieno, m'han detto” risposi “o sulla paglia, non so'!...”

    “C'è il canadà, per dormire” disse “eccolo!” Mentre parlavamo il Peo s'era alzato faticosamente e mi s'era avvicinato per condurmi dentro; vicino a lui avvertii ancora quell'odore di tarda vecchiezza, che soffocava, pur mantenendo come una traccia di remoto splendore. M'aveva preso per il braccio e, traverso la cucina spenta e silenziosa, mi introduceva nella stalla dove il fieno, in un gran mucchio quadrato, si copriva di lenta pioggia di polvere. “Eccolo il canadà” disse ancora il Peo, e lo vidi, allora, il giaciglio: quattr'assi, un pagliericcio a righe rosse e bianche, e, come coperte, vecchi cappotti della Ferrovia. Stavamo appoggiati al muro, senza parlare, e la nostra indecisione era traversata da soffusi ribrezzi, molto vicini alla paura: che risentiva del grande monte cavo sull'altra sponda, quella terra in qui il Paolo dei Gabàni insieme ad altri miti errano tra infinite basiliche, sotto il grande monte Arbario. E ci coricammo e ci addormentammo mentre queste nostre ansie comuni agivano vagamente. ↑   

  • ROSSO DI SERA - Quarto episodio

     

    Ma non fù un sonno lungo, per via di quella finestrella che s'apriva nel muro proprio sopra le nostre teste: era senza vetri, e forse per questo le presenze della notte non ne erano allontanate ma urgevano insieme al fioco barlume dello spazio vuoto che ci premeva anche sul canadà del vecchio Peo; e anche lui, il nonno, premeva sul pagliericcio il peso della sua vecchiezza di splendori remoti, un po' soffocanti; poi si rigirava, lui, muoveva i cappotti polverosi e dall'apparenza fragile, pronti forse a disfarsi e a sgretolarsi in terra fossile (avevano anche loro chissà quanti anni); muoveva i cappotti, il Peo, e gemeva queto e mesto, faceva “buoc-buoc” colla bocca, forse la saliva lo soffocava; e non mi diceva nulla forse temeva di risvegliarmi - faceva solo “buoc” colla bocca e rimuoveva i cappotti e gemeva. E tra i suoi sospiri lavorò meditatamente per cavare silenziosamente l'orologio dalla giacca appesa al chiodo; poi lo guardò, l'orologio, lo caricò distrattamente, fermandosi di colpo come avesse temuto improvvisamente di potermi svegliare con quel rumore: stette così silenzioso trattenendo il fiato per un tempo lunghissimo, poi si abbandonò sul pagliericcio e i sospiri pesanti gli uscivano ora con più forza, e tra i sospiri mormorò “le tre del mattino...” e faceva “buoc” ... “buoc” ... colla bocca, il vecchio. Poi sentii che i suoi occhi mesti mi cercavano: provai una specie di pietà per lui e lo guardai anch'io, alla debole luce.

    “Non hai sonno, ninetto?” chiese quando il suo sguardo m'ebbe separato dalle tenebre “dormi; sei stanco”.

    “Anche tu sei stanco” risposi “sei stanco, poi sei anche tanto vecchio!” E subito rimpiansi quelle parole, come avessero potuto offenderlo.

    “Son vecchio ma non faccio nulla tutto il giorno” disse il Peo “le vacche conoscono ormai la strada del prato (è tanto vicino!) e io per un po' le stò a guardare, poi...” E forse voleva aggiungere che dopo lui stava a sentire il grande monte Arbario, tutto il giorno, accovacciato sulla pietra, le spalle contro la sua capanna: ma non lo diceva, e nemmeno io ne parlai, benchè il monte fosse l'unica vera presenza di quella notte. E allora il nonno alzò la mano al soffitto e tacque un istante: “Tuona in Val Canaria” sentenziò gravemente “hai sentito, ninetto?”

    Porsi l'orecchio ma non sentii che il fiume, lontanissimo, scorrere sul fondo della valle. “Non mi sembra che tuoni” dissi” “lo senti solo tu, il tuono!”

    Il vecchio si fece silenzioso. Lui sentiva tuonare in Val Canaria e allora taceva paurosamente e io lo sentivo tutto teso nell'ascoltare se il rimbombo si ripetesse, e l'ansia ch'era in lui faceva vibrare il suo breve spazio e mi riempiva di sgomento.

    “Ma cosa significa, nonno” gli chiesi “se senti tuonare in Val Canaria? Cosa vuol dire tutto questo?”

    “È il monte che lavora” rispose “nel cavo che c'è dentro l'Arbario scivolano le frane, sgorgano le cascate alte mille metri - cascate d'acqua calda, sai, come ne ho viste in America...”

    “Ah si, tu sei stato in America” dissi con fervore “sei stato laggiù, tu, tanti anni!”

    Il vecchio non rispose. S'era forse un po' assopito - sospirava ancora come prima e faceva “buoc” ... “buoc” .. colla bocca, di tanto in tanto. Era stato in America, il nonno, e poteva tacere, per questo, poteva sentir tuonare in Val Canaria mentre noi, poveri magatelli, non si sentiva che il rumore della notte o del proprio sbigottimento.

    “Sei stato in America, dillo pure chiaro e netto” gli dissi con una specie di scherno di cui io stesso non mi rendevo conto “lo sanno tutti che tu hai fatto il viaggio!”

    “Si” cominciò a dire il nonno “l'ho traversato il pozzo, io, sul bastimento... C'è forse da ridere, per questo, boia d'un magatello? Son stato laggiù perché i tuoi zii erano in troppi, voraci erano, quegli accidenti... Non c'erano nemmeno abbastanza piatti, in casa, perché potessero mangiare tutti insieme. Venivano a sei per volta, a tavola poi senza nemmeno lavare le stoviglie si distribuiva la polenta per gli altri... Tua nonna (la conosci, quella, ninetto!) mo guardava sempre come a rimproverarmi, come a rinfacciarmi la nostra miseria. E uno allora prende su e va' in America, non ti pare?”

    “Ma gli altri non sono venuti, con te, in America” dissi io “loro mangiavano qui, giù in paese... Come fanno a nutrirsi se il padre è in America?”

    “L'idea dell'America me l'ha messa in testa lei, la vecchia” continuò il Peo “taceva sempre e mi guardava con aria di rimprovero, ma una sera si stava nel letto e lei d'un tratto esce fuori a dire “Si, lo so' che tu vuoi andartene! L'ho capito da un pezzo! Mica ha l'anima del paesano, lui, il Conte Mylord! Lui vuol traversare il pozzo, vuol andare in America!” Questo diceva tua nonna, nel letto, e ti dico la verità che ho cominciato davvero a pensarci, all'America: sono andato a Bellinzona, ho fatto i passi, e un bel giorno ho fatto il baule e ho detto “Addio, allora, vecchia! E anche voi, magatelli, state bene! Vi manderò qualche soldo, appena potrò!” La Corinna ha fatto talmente il diavolo che son rimasto ancora due giorni, poi ho prolungato la partenza di tre settimane... E lei aveva parlato ai tuoi zii ch'eran già un po' grandi, li aveva messi contro di me. Mi guardavano con odio, io, loro padre, si facevan dei segni e lei, la Corinna, s'era fatta smorta e cattiva e aveva fatto venire anche il prete, una sera, a parlarmi... “Pompeo, guardate che state facendo un brutto passo” mi disse quello “è pericolosa, l'America, state qui, ai vostri campicelli!” Non volevano che lasciassi i campicelli, ninetto, quelle buone genti! E intanto che parlava il prete faceva dei segni, come delle benedizioni: pensava forse che avessi il diavolo in corpo, ma non sentivo nulla di speciale, ero tranquillo, da questo lato; non volevo altro che andarmene in America, io, e basta.

    “Signor Prevosto” gli faccio “li conosco, i campicelli! Li ho lavorati abbastanza ormai, ma non danno nulla! Solo povertà, danno, e lagrime!” Poi aggiungevo “ce ne sono anche in America, Signor Prevosto, di campicelli! A milioni di chilometri, m'han detto! E se si tira su una palata di terra e ci si fruga dentro, si trovan cinque o sei ciottoli d'oro!” Loro non capivano come io la vedessi così, l'America: per questo insistevano e piangevano e minacciavano; ma un bel giorno ho rifatto il baule e ho chiamato i figlioli e ho detto “Arrivederci, figli miei! Vado a guadagnare un po' di ricchezza anche per noi, poi compreremo piatti, tanti piatti, e riempiremo la stanzetta di farina gialla!” Quelli mi guardavano con odio (c'era la Corinna che li lavorava) ma hanno pur dovuto lasciarmi partire, un bel momento. Così con tanti galuppi per casa ho dovuto portarmi da solo il baule, e l'ombrello e l'altre cose, fino alla stazione”. ↑   

  • ROSSO DI SERA - Quinto episodio

     

    “Se tu palavi la terra e ci trovavi dentro l'oro” dissi “come mai siamo ancora tanto poveri?”

    “L'oro deve esserci, laggiù, in qualche parte a fior di terra” continuò il nonno “ma io l'ho cercato per un pezzo! La Corinna però ha creduto a lungo che io l'avessi trovato. Quando son tornato, quindici anni fa, ci mise un pezzo a riconoscermi!”

    “Signore” diceva “che volete? Cercate qualcuno?” Intanto erano arrivati anche i tuoi zii e mi avevano circondato e mi guardavano con curiosità. E volli scherzare anch'io. “Abita qui” dissi “la contadina Corinna colla famiglia?” “Si” rispondeva quella, imbarazzata “Ma che volete? Siete quello delle imposte? Dell'Assicurazione?” Poi non ho più potuto resistere e mi sono rivolto a tuo zio Luigi e gli dissi “Luigi, non riconosci tuo padre?” Era una tenerezza un po' spinta, me ne sono accorto subito: questa maniera di fare non è adatta a noi poveri, io credevo che fosse come in America, l'avevo imparato laggiù insieme a tante altre cose. E chissà perché sentii allora una grande vergogna, e un senso di miseria, unito a quello che m'ero portato da tanto lontano: mi venne da piangere, allora, mi cadevan le lagrime sui baffi e guardavo piangendo tra di loro, i miei figli e scorgevo le stesse cose di prima, nella casa, lo schioppo sopra il camino e la vetrina dell'armadio coi soliti piatti, non uno di più: solo il calendario era cambiato, ora ne mettevano in giro di quelli con su la casa e il boschetto e un po' d'acqua sul davanti, e su tutto cade una neve fatta di tanti piccoli cristalli. Piangevo e li guardavo, i miei figli - sani, questi, forti e sporchi ma sani e aperti - li guardavo e facevo segno di si colla testa, di si, che ero il loro padre; ma quelli si muovevano con impaccio e inghiottivano la saliva e non sapevano proprio cosa fare. La Corinna poi aveva abbozzato un sorriso che le era subito andato di traverso, era diventato cattivo; e mi si avvicinava come per abbracciarmi poi la presi io nelle braccia, la guardai in faccia molto da vicino e sentii che le puzzava il fiato. Anche i figli vennero ad abbracciarmi, uno alla volta, ma subito dopo correvano fuori nella corte e li sentivo parlottare, sbalorditi. Mi trovai solo colla Corinna e le dissi “Non credevi che sarei tornato un giorno, Corinna?” Ma lei mi considerava sempre col suo sorriso inquieto, poi mi mostrò il collo scarnato e pieno di lunghe buche, me lo fece anche toccare e disse “Son diventata così, vittima del lavoro! Non abbiamo nemmeno fatto distinzione fra il giorno e la notte, qui, durante tanti anni! Mica abbiam messo il lardo alla coppa come tu!” Neanch'io avevo il grasso sul collo ma lei diceva così per intenderci. “Il lardo alla coppa, hai messo” continuava “e noi abbiam perso gli anni sui campicelli!”

    ”V'ho sempre mandato quel che ho potuto” obbiettai “pochi soldi: ma sempre un aiuto”.

    “Negli ultimi tempi non hai mandato un accidente” disse la vecchia “e nemmeno hai scritto più: ti sei dato alla pazza gioia, da quel conte Mylord che sei sempre stato!” Cominciavano già allora, i rimproveri. Io uscii allora nella corte poi presi la strada dei campicelli ed era ormai sera; e chi incontro vicino alla Cappella? Tua zia Aglae, che tornava da mungere le vacche. Era appena nata quando sono partito, ma l'ho riconosciuta lo stesso. “Aglae” ho chiamato “sei tu?” E subito, stavolta, ho aggiunto “sono il Peo, tuo padre!” Quella mi corse tra le braccia poi s'è messa a piangere e son tornato a piangere anch'io, abbiam pianto per un pezzo per un pezzo tutt'e due insieme finché son venuti a cercarci perché era già tardi e avevano preparato un po' di festa, a casa, avevano tirato il collo a una gallina. Il giorno dopo ho parlato alla Corinna, le ho chiesto un po' dell'Aglae: mi pareva diversa dagli altri, quella ragazza, temevo che mi assomigliasse un po' troppo, cosa che veramente non le avrebbe portato fortuna. “L'Aglae?” disse la vecchia “quella non parla perché non si degna di discendere al nostro livello! Troppo alta, la sua anima: proprio come te!” Era quello che temevo; perché anche se lei un giorno avesse trovato la strada della sua America, gli sarebbero capitati gli stessi miei mali. Intanto più giorni passavano e più cresceva fra noi quell'aria di triste stupore che avevo ritrovato al ritorno: mi schivavano un po', i figli, non mi rivolgevano mai la parola ma li vedevo che parlottavano tra di loro e tacevano non appena arrivavo io. La Corinna invece s'era messa a usarmi strane gentilezze, mi faceva sempre quel suo sorriso inquieto e pareva sempre aspettare che io le dicessi qualcosa. Ma non avevo proprio nulla da raccontare, ricordavo soltanto, io, le cose che ritrovavo, i campi, il lavoro, le genti, tutto mi ricordava dolorosamente le cose di laggiù”.

    E tacque, il vecchio, tacque e stette come soprapensiero, poi alzò una mano nelle tenebre e disse “Tuona in Val Canaria!”

    “Ancora!” dissi “non ho sentito nulla, io!” Ma lui veniva dall'America e le sentiva, queste cose, ben più di noi.

    Giaceva il vecchio sul pagliericcio (era tanto presto, ancora); e s'immerse in quel suo silenzio rotto da gemiti e rimase a fare “buoc”... “buoc”... colla bocca, ogni tanto. Mi tirai su lentamente fino alla finestrella, ad ascoltare le folate di notte che entravano: e il fosco profilo del monte Arbario si disegnò nello spazio. Sopra pel cielo correvano lunghe striscie rosse, appena oltre il monte, e la Val Canaria non si vedeva, e nemmeno tuonava o rimbombava - solo il torrente vi scorreva col solito fruscio che pareva salire lentamente di tono, come per arrivare, infine, a fondersi col silenzio. E quando l'aria si fu fatta grigia e le cose della stalla tremarono pesantemente nell'alba, il vecchio si vestì piano piano, scese dal canadà e sentii poco dopo che soffiava nel fuoco e che rompeva con strepito dei ramoscelli. La stalla prendeva colla prima luce quella sua aria di dimenticata vecchiezza, mostrava le crepe nei muri, i pietroni sconnessi che facevan da tetto, la polvere che calava e si posava tristemente su tutte le cose. Le grosse bestie, nella stalla di sotto, si muovevano inciampando nelle loro catene, e sospiravano più forte del nonno ma solo a andate. Corsi nell'altro locale, dove il vecchio era chino sulla fiamma e preparava il caffè nero. Anche dal finestrino della cucina si scorgeva il monte spettrale, fasciato di porpore, che sembrava navigare tra le sue nebbie malate e sospinte. ↑   

  • ROSSO DI SERA - Sesto episodio

     

    Il vecchio continuò il discorso: “Mi girava intorno, la Corinna, e non voleva che io cominciassi subito a lavorare. “Riposati, ora” mi diceva “lascia correr qualche giorno, tanto abbiamo faticato tanto che non la sentiamo più, noi, la fatica!” E intanto m'andavo accorgendo di strane cose, piccoli cambiamenti nel contegno dei tuoi zii, gentilezze e riguardi che non m'aspettavo. Era d'autunno, e già quelli mi facevano trovare la scaldiglia nel letto come se soffrissi il freddo più di loro. E quando cavavo qualche camicia dal baule, ch'era sempre rimasto su in camera, semiaperto, mi accorgevo che qualcuno doveva averci frugato; e un giorno, a tavola, la Corinna mi chiede “chi è quella ragazza in fotografia che tu tieni nel portafogli?” Avevano frugato anche là dentro. “Uno non può più tenere nel portafogli quel che gli pare e piace?” chiesi “cos'è 'sta storia!” Ma loro volevano sapere chi era quella ragazza. “È una ragazza che non conoscete, voi” risposi “è dell'America, quella”. E non dissi nulla di più, a nessuno avrei potuto spiegare e raccontare. E la sera c'era nell'aria qualcosa di speciale, me n'accorsi subito. Finita la polenta i figli non pareva che volessero andarsene come al solito, sedevano massicci e scuri al loro posto, a tavola, e la Corinna tendeva cogli occhi i fili di un segreto lavoro che aveva dovuto svolgere da tempo. “Pompeo” disse la vecchia dopo tutto quel silenzio “allora non ce lo vuoi dire, non hai fiducia in noi!” “Ma si” faccio io un po' sbalordito “che c'è di strano in una ragazza?” Non potevo mica raccontar la storia, a loro che non avrebbero capito. “È una bimba che ho conosciuto laggiù: e n'ho conservata la fotografia”.

    “Ma che bimba” disse la Corinna (e intanto volgeva gli occhi inquieti sui tuoi zii) “che ragazza, non c'importa niente di lei! È l'altra cosa, che vogliamo sapere una buona volta!”

    “L'altra cosa?” faccio io “cosa volete, ancora?”

    “Ti usiamo tutte le delicatezze” continua la vecchia “abbiam già tirato il collo a due galline e a tre conigli: perché non ci parli dell'altra cosa?” Avevo capito, ormai. “Credimi, Corinna” dico “e anche voi, figli credetemi: sono povero, io - non l'ho mai trovato, io l'oro sottoterra, colla pala!”

    Quelli si guardarono come smarriti, salvo la Corinna che balzò in piedi e mi venne talmente vicino colla faccia che io sentii il suo fiato amaro. “Li dovrai pure tirar fuori, questi soldi” gridò “se no puoi tornartene da dove sei venuto! Abbiamo perso gli anni, noi, sui campicelli! Guarda questo collo” (e alzava il mento per mostrare i solchi profondi) guarda, la mia carne dov'è andata!”

    Anche la mia carne era triste, ninetto, ma non glielo dissi, non dissi più niente, a loro; e la mia carne divenne ancora più triste, perché avevo bell'e capito che il male non l'avrei raccontato a nessuno”. Il vecchio tacque e l'alba venne a battere sulla sua faccia larga e piatta e vidi allora che i suoi occhi mesti cercavano qualcosa, ma non come quando voleva vedere il nostro volto e non riesciva subito a separarci dall'altre cose. Lui cercava di guardare molto oltre dov'io tremavo di freddo e di sonno - cominciava allora quel suo andare verso i rapimenti.

    L'alba batteva anche sul grande monte cavo ma senza svelarlo; attorno a lui la notte sembrava come impigliata, si annidava nei crepacci, colava molto più adagio dell'acqua lungo la Val Canaria dove il Peo sentiva tuonare. E lassù in quella notte del monte scoppiarono di colpo due o tre luci, piccole e gialle; che poi si fissarono e sembravano guardarci con tristezza.

    “Guarda, nonno!” escalmai “là sul monte ci sono le genti!”

    “Ci son donne e vacche e magatelli” disse “perché non dovrebbero starci? Quando verrà giù l'Arbario, una di queste notti, là sarà come qui, senza salvezza”.

    “Ma lassù stan proprio sul cavo” dissi “quando cammino suona di vuoto, sotto i piedi!”

    “È un po' così per tutti” rispose.

    Si stette così per delle ore, io e il nonno silenziosi nella capanna, e laggiù il giorno che risaliva, e quei lumi tristi che occhieggiavano e la notte che colava dalla Val Canaria e giù in fondo si stracciava tra l'acqua e le roccie. E a giorno fatto il Peo condusse fuori le vacche che si raccolsero sulla porta della stalla e stavano imbambolate e alzavano verso il cielo le labbra e le lingue vescicose e starnutivano lentamente. Il vecchio era anche lui tra le bestie, anzi era appoggiato a una vacca pesante e guardava anche lui dove annusavano quell'altre; non sapeva tenersi in piedi da solo, il Peo, bisognava sempre che s'appoggiasse a qualcosa, capanna o vacca o canadà. Poi le bestie si mossero ondeggiando e il nonno non s'era accorto di questo: scivolò lungo la sua mucca poi mosse un po' le braccia, il suo sguardo roteò rapido: e cadde sull'erba. Per un po' non seppi che fare, poi risi fino alle lagrime correndo su e giù tra l'erba, sghignazzavo ma avrei voluto piangere e invece correvo su e giù e mostravo il nonno col dito e tra le lagrime vedevo che lui si alzava stancamente e sorrideva come faceva lui, impacciato. Non se la prendeva per queste cose, il nonno. M'era diventato un po' ridicolo, per questo, non ci credevo più gran che, io, alle sue disgrazie; era caduto, il nonno, come un asino, aveva buttato la sua carne triste sulla terra e nulla aveva tremato - pesava poco, la sua vecchiezza. Ma io non li guardavo più come prima, era cascato e basta: qualcosa s'era annebbiato, nella mia meraviglia.

    La capanna era tutta colma di oggetti terrosi e come spersi in quell'ombra che non si sollevava mai: i pochi mobili, zoppi, non contenevano che ferravecchi, serrature arrugginite, lingue di cuoio, e ingenui bottoni che invecchiavano. Io scivolavo pianamente in una specie di terrore in cui la mia presenza lassù diventava remota, la mia paura remota, e il mio sbigottimento si armava di una gran voglia di scherzare il nonno che andava verso quei suoi rapimenti. ↑   

  • ROSSO DI SERA - Settimo episodio

     

    Io mi perdevo in quell'ombra della capanna, a frugare tra le cose fossili, dove la polvere cascava lentissima e i sassi scricchiolavano di tanto in tanto; e il vecchio stava li fuori sulla pietra e le sue spalle pesavano contro la capanna. Frugavo tra quelle cose di terra, in cerca di qualche spento elemento al quale appioppare una smarrita espansione di curiosità. Ma non c'era nulla, solo un cavaturaccioli rotto ho trovato, e molti tappi, e culi di bottiglia, relitti di quelle bevute colle quali il vecchio consolava i suoi rapimenti. Questo trovavo, e anche una pipa ho trovato, dopo tanto cercare e quando la mostrai al Peo quello la prese sotto gli occhi annegati di stupore, la maneggiò delicatamente, poi adagio la presenza di lui tutto venne sulla pipa; e come tutta risposta la fece saltare in aria, riafferrandola, lungo la caduta, pel bocchino.

    “La pipa” fece il nonno “quella tale”.

    “Una pipa come le altre” dissi io “perché: viene forse anche lei dall'America?”

    “Proprio così” fece il vecchio “ha traversato il pozzo”.

    Dissi “Ma come pipa, è fumabile?”

    Disse il nonno “Sopra il camino ci dev'essere ancora un po' di tabacco”.

    Quando tornai lui faceva ancora saltare la pipa, riafferrandola pel manico con estrema precisione. E me la porse, quando l'ebbe caricata.

    “Proprio io devo fumarla?” chiesi “Le pipe s'accompagnano ai vecchi; nelle vignette son disegnati così, i vecchi, con grosse pipe pendenti dalle gengive”.

    “Prova a fumarla tu, invece” disse il nonno “ogni pipa ha un po' la sua anima: questa io la conosco da lungo tempo”.

    Accesi la pipa con un tizzone del camino che lassù stava acceso quasi sempre; mi coricai ai piedi del vecchio, sull'erba, e piano piano entrai con tutto il mio smarrimento in una nuova ansia più spaziata, risonante, e il monte Arbario c'era più di prima, stavolta, col suo mito di vuoto e di perdizione fatata, sotto il velluto delle volte terrose, coi suoi abissi nel disotto, fino al fondo bucherellato e spugnoso, dove le orme delle genti perdute e cadute dai precipizî si allungavano tra i rosai - la pipa e la sua anima fatta di cenere caduta sul volto e un po' respirata, soffocante, vecchiezza di remoti splendori, ormai anneriti, era l'ultima misura prima di scivolare per sempre nel cavo che dilagava, che arrivava a folate stranamente fresche e rabbrividenti. Il vecchio sedeva con peso indicibile sulla pietra e mi guardava da lontano, mi fissava e nello stesso tempo cercava di scrutare oltre le folate incalzanti di vuoto sonante e mortale - scrutava in quello che veniva verso di lui da molto lontano; e intanto aveva alzato il braccio, allungato il dito, e dalle sue labbra una voce cadde su di me, e io mi raggrinzii sulla terra e tremai, d'un brivido lunghissimo: e la voce era dei remoti splendori, era chiaro, questo: voce vecchia di cenere che dissolve la breve struttura della faccia e la vecchiezza mitica si avvolge e turbina a battiti. Diceva la voce “È lei, la piccola Venetia, dietro i girasoli”... Proprio così diceva, musica di vecchiezza che torna, e allora mi mossi con più sgomento, afferrai l'erba colle mani, strappai le zolle, e lasciai cadere la pipa; proprio mentre cupo, ramificato e ben profondo il tuono della Val Canaria planava sulle selve...

    “Tuona in Val Canaria!” gridai “Nonno! Tuona, ho sentito adesso!”

    “Viene il temporale” disse il nonno con pacatezza “vuol piovere è per questo!”

    Infatti era diventato tutto scuro come se fosse già sera, ma mentre dall'Arbario grossi nembi si spandevano e la loro ombra, sulla terra, s'appiattiva correndo e avanzava verso di noi, dall'altra parte infinite nubi a pecorelle scalettavano il cielo. Anche i venti giunsero, portando odori di terra marcia e ravvivando l'erba intorno a noi. Il nonno s'era fatto vecchissimo in quella sera della pioggia e copriva la pietra tutto curvo, mentre l'ala del cappellaccio gli batteva sul viso; e ancora i suoi occhi acquosi cercavano e non si fermavano su nulla, non trovavano; pure aveva detto “È lei, la piccola Venetia, dietro i girasoli”..., l'aveva quasi gridato, me ne ricordavo bene.

    “Ora so' che ragazza avevi nel portafogli, in fotografia!” dissi “nonno: perché non l'hai detto, chiaro e tondo, alla vecchia?”

    “Non capiva, la Corinna”, disse il Peo “poi lei voleva sapere di quell'altra cosa, per questo mi mostrava il collo tremendamente scarno”.

    “Tu non lo sai, ma è tutta scarna così” dissi “ho dormito nell'altro letto della sua stanza, una volta: e allora lei s'è inginocchiata a dir l'Ave Maria, prima di coricarsi, ed era in camiciola, così ho visto un poco che nera, sotto, tutta nera e secca: ma guardando meglio mi sono accorto che il nero è solo l'ombra delle buche che lei ha per il corpo”.

    “È di carne triste, la vecchia” disse il nonno.

    “L'hai visto anche tu, nonno?” chiesi “Di', l'hai visto?”

    “L'ho vista prima, negli anni” rispose “ma non era nera, allora, era senza buche, non un solco aveva per il corpo: liscia e duretta, avresti dovuto vederla!”

    “Come la zia Aglae, era?” chiesi.

    “Molto più liscia e bianca, Marcellino” rispose il vecchio, che aveva trovato la pipa tra l'erba e la faceva saltellare sulla mano “l'Aglae cerca la sua America, proprio come facevo io: e la sua carne è già un po' triste, ecco la differenza”.

    “Ma la vecchia” chiesi ancora “era come quelle donne che ci sono sui cataloghi? Proprio così bianca e vellutata, colle ombre sfumate, sotto i panni?”

    “Quello sono ancora niente” rispose “son manichini! Ma la vecchia allora, era ben migliore, scaldava le lenzuola, quella, colla gran carne massiccia, che quando si girava tirava sempre le coperte dalla sua parte e anche la camiciola, spiegazzata, le si avvoltolava, tanto la carne era grande e massiccia e rotonda!”

    Dissi “Si stenta a crederlo: s'è fatta come una mummia, ora, la vecchia!”

    Pioveva ora anche su di noi e non si pensava a ripararci, io inseguivo una nonna rotonda e bianca che non avevo conosciuto, e lui il Pompeo, n'aveva già troppi di fantasmi: non vedeva nemmeno quelli, portava i suoi occhi mesti sulla pioggia ma n'aveva già viste troppe, di pioggie, per intere stagioni; la cosa più vicina ai suoi rapimenti era quel tuonare che lui sentiva in Val Canaria. ↑   

  • ROSSO DI SERA - Ottavo episodio

     

    La vera sera venne oltre quella della pioggia, e noi s'era sempre di fuori sulla pietra e si taceva; si guardava ma la pioggia nascondeva ogni cosa, solo l'Arbario navigava tra i nembi, e sul suo vuoto altri vecchi e altri magatelli accanto a vacche pesanti picchiavano la terra nell'andare e quella suonava, sapeva di vuoto. Solo quando la pioggia ci ebbe messo addosso lunghi brividi di freddo il vecchio si alzò appoggiandosi alla pietra, mi prese pel braccio e senza parlare mi condusse nella capanna. Allora caricò ancora la pipa e me la porse, senza una parola. Avrei voluto fuggirla, quell'anima remota della pipa, ma quando mi fui messo, lungo e tirato, sopra una panchetta che era li presso il fuoco, quasi senz'accorgermi l'accesi e stetti ad ascoltare la grande acqua che si rovesciava sul tetto e filtrava già, a lunghe goccie, nella cucina. Luce triste c'era, luce triste e carne triste della vecchia nera di ombre: e mentre l'Arbario s'inzuppava di pioggie e la Val Canaria cresceva di tono per la forza della nuova acqua, in noi qualchecosa lavorava misteriosamente.

    La pipa aveva riacceso in me il lento sgomento e la soffocante vecchiezza di remoti splendori, e anche la voce tornò, quella del nonno, un po' gridata ma rotta e cartosa e triste: “È lei, la piccola Venetia!” Pensai che lui chiamasse così la bianchezza e la lisciezza della nonna, quand'era giovane: era stato laggiù, lui, aveva di queste delicatezze. Ma il suo rapimento andava ben più lontano. L'aveva pur lasciata, questa bianchezza e questa lisciezza: gli era entrato il mal d'America, al nonno. “L'hai poi trovata, l'America?” chiesi, con quel mio sbigottimento che su di lui era scherno e delusione: era caduto, ormai, aveva picchiato le ossa sul fango, quando la mucca s'era avviata verso il prato. “Eri contento, finalmente, d'averla trovata?”

    “Non c'era nulla, laggiù, di quello che m'ero messo in testa” principiò a dire il vecchio; con disperazione sentivo che lui non raccoglieva il mio scherno - gli bastava così poco per rievocare! “Ho trovato altri campicelli, molto più lunghi di questi nostri, che a farne il giro dovevi prendere la merenda in un pacchetto, se nò rischiavi di non tornare più. Il ranch era d'un altro del paese, ch'era venuto a scuola con me ma che laggiù aveva imparato a fare il padrone. Vedere come comandava, quello! “Alzati, pellaccia!” mi diceva la mattina, frugando col piede sulla mia carne “devo mungerle io, adesso, le mucche?” E non erano mica due o tre come qui al monte, ninetto, le bestie: eran duecento, cifra tonda. Allora m'alzavo ed era di mattina ancora scuro, mi trascinavo presso le grandi vacche addormentate e riempivo bidoni di latte. Poi la sera era la stessa musica: a furia di brucare tra i prati le bestie scoppiavan di latte, e bisognava ricominciare daccapo. E sul giorno mica potevo sdraiarmi sotto un albero: il padrone veniva e non diceva nulla, additava soltanto la rimessa dove l'automobile vecchia e sgangherata sembrava sul punto di sfasciarsi in tanto ferrame. E con quella portavo il latte a Salinas, tutti i giorni anche la domenica, e quelli mi davan solo dei tagliandi, roba bianca che il padrone portava alla Banca e cambiava in dollari. Non pioveva mai, in quel accidenti di un paese: talvolta veniva solo la nebbia e allora s'aveva più voglia di dormire, di lasciarsi andar via coi pensieri. Ma il padrone arrivava sacramentando e le cose che avevi per il capo bisognava tirarsele dentro tutte e affacendarsi tra le vacche che di tanto in tanto ti leccavano la faccia colla lingua o ti facevan luccicare addosso quei loro occhi sognanti, e all'angolo ci avevan sempre una lagrima, loro, le vaccherelle. ↑   

  • ROSSO DI SERA - Nono episodio

     

    Un giorno andavo a Salinas colla macchina e i bidoni del latte picchiavano e rimbalzavano dietro, quando i pensieri m'han preso di colpo e mi venivano su in gola delle cose amari e soffocanti, e io più ne inghiottivo più venivano a strozzarmi: allora ho arrestato la vettura, son sceso, ho preso un bidone e l'ho vuotato sulla polvere della strada, e mi son sdraiato anch'io sulla polvere, ho guardato il latte che dilagava tra le magre erbette e ci ho sputato dentro, più volte; ma più degli sputi cadevan nel latte le mie lagrime, di quelle spesse come la linfa, ninetto, e dicevo “Povero Pompeo!” dicevo così, e guardavo quel latte e mi veniva ancor più da piangere e gridavo “Povero Pompeo!” È tutta qui, l'America l'hai vista adesso!” E mi tornava in mente la Corinna, quella di prima, che stava nel letto bianca e liscia, e quando si rigirava strappava le coperte di dosso anche a me, tant'era grande e massiccia. Guardavo il latte e i miei sputi e le mie lagrime che rammollivano la terra ma non c'era oro sotto le zolle, solo ciottoli e polvere, e già l'automobile si disegnava contro il cielo della sera. Son tornato così tardi che il padrone aveva munto una dozzina di vacche. M'ha chiesto allora cos'era capitato, ma mica potevo raccontargli del latte, era il padrone, lui! Da allora ho cominciato a pensare a un'altra America, a quell'altra che non avevo trovato: ma il lavoro cresceva sempre, era arrivata un'epidemia che faceva crepare tutti i vitelli. Il padrone aveva un bel portarli, la sera, nella cucina! Li prendeva in braccio con amorosa sollecitudine (non amava che le vacche, lui!) e li deponeva teneramente sul pavimento, accanto al fuoco, sperando di farli guarire. Ma i vitelli stavano silenziosamente ritti sulle gambe, tremando, poi muovevano quei loro occhi annebbiati e ci guardavano; pareva che ci guardassero da lontano, e intanto si inclinavano lentamente sui ginocchi, tremavano sempre, andavano spaventosamente verso la terra e allora cominciavano a sgambettare, facevano una strana danza, i vitellini, coi loro zoccoli molli: ma bisognava pur che arrivassero a terra, un bel momento: e allora non lottavano più, aderivano sul pavimento con tutta la pelle squassata da estremi brividi. Noi per casa s'era un po' smarriti, ci si guardava negli occhi l'un l'altro come se si fosse colpevoli. E ancora il padrone usciva dalla cucina e andava a prendere un altro vitello, e quello riprendeva la danza poi si coricava, si stendeva in quel suo vero letto: aveva finito di cercarla lui, l'America. Il padrone non si riconosceva più - s'era fatto mesto e lungo e sognava dietro i suoi vitellini; e quando un altro ne moriva lui faceva la bocca a cuore e gli uscivano le prime parole profonde, quell'epidemia lo aveva cambiato. E allora non s'è visto che acqua e carne di vitello, a tavola: per dei mesi. Carne di vitello, anzi testine di vitello: il corpo lo vendevano all'ingrosso ad una fabbrica di salamoie. C'era soltanto sole, laggiù (non pioveva mai!) e si lavorava con disperazione, io dietro all'altra America e lui a tutte quelle morti, che gli avevano aperto gli occhi. Ma quando ci si gettava dentro nella casa piena d'ombra e si traballava verso la tavola, sul piatto stavan solo teste di vitellini, lessate, cogli occhi che ci guardavano da lontano e i denti, sporgenti, piatti e ingenui. E la sera erano ancora quelle testine che arrivavano in tavola, fredde, in insalata. Io mi trovavo sempre meno al mio posto, laggiù. C'era qualcosa che mi premeva molto dappresso, lo sentivo, e non dormivo nemmeno più in quelle poche ore della notte: uscivo allora sotto le stelle e andavo nell'orto, poco distante dalla casa, dove c'erano tante buche nella terra e dove il padrone andava silenziosamente di sera a seppellire la pelle e le ossa dei suoi vitellini. Poi entravo nella stalla e erravo tra le bestie che dormivano, davo qualche calcio qua e là ma le vacche nemmeno si muovevano, parevano morte anche loro. Di notte in notte decisi di andarmene per davvero: non ci stavo più, io, in quel ranch, le fosse dei vitellini mi facevan venire da piangere, le vacche dormienti mi facevan venire da piangere, e anche il padrone, sporco e malinconico, s'annebbiava sempre di più e singhiozzava spellando i vitellini e mangiando le testine in insalata. Qualcosa avevo messo da parte, questo si: un giorno misi in tasca quei pochi biglietti da mille, montai in macchina e m'allontanai circa cento metri dal ranch: poi puntai direttamente sulla casa, accesi il motore al massimo e saltai giù in tutta fretta. L'auto volò nella corte, e vidi il padrone scansarsi per un pelo: e mi giunse il digrignare di tutto quel ferrame che si sfasciava finalmente contro la stalla. Lui non mi sarebbe più corso dietro. C'erano tutti quei vitellini, tra il padrone di prima e quello di adesso: tardava già a vederci bene, ora. Così lo vidi ancora da lontano, sempre fermo allo stesso posto, sulla corte: lui non poteva più capire”.

    Il nonno tacque e io mi mossi fievolmente sotto la vecchiezza della pipa che stordiva come un incenso: mi mossi, mi misi a sedere sulla panca, e la pipa mi cadde di bocca. “Non capisco neanch'io, vecchio” dissi “che diavolo t'è passato pel capo di andartene?”

    “C'era qualcuno che mi chiamava” rispose il nonno “forse era lei, la piccola Venetia, nel giardino dei girasoli”.

    “Ma sapevi con precisione dove si trovava la tua Venetia” dissi “nonno, quella stava qui sull'altra sponda!”

    “Era laggiù in qualche posto, quella, ninetto” disse il vecchio “dietro i girasoli”.

    “No, l'hai detto tu che la carne bianca e massiccia stava sul letto di casa, nella camiciola!”

    “Ah magatello!” esclamò il nonno “boia, boia d'un magatello! Vuoi saperne più di me, adesso!” Voleva evocare da solo, il Peo.

    “L'hai detto tu” insistetti “mentre fumavo la pipa”.

    “La Venetia non era ancora carne né triste né liscia, Marcellino” sentenziò “era piccola, quella, più indietro di te”.

    Seppi dunque che c'era un'altra Venetia, oltre il maestoso velluto della vecchia che un tempo lacerava la camiciola colla carne dalle ombre sfumate. La notte era venuta su di noi scivolando dalla finestrella, e ora il fuoco faceva ballare la figura del vecchio che non era più all'altezza della mia meraviglia, caduto com'era ssul fango, la mattina, La pioggia mormorava sul tetto e veniva dentro i ruscelli, lustrando le cose massiccie nell'ombra, e si sentiva l'odore della polvere bagnata. “È lei, la piccola Venetia, dietro i girasoli” disse ancora il vecchio Peo; e nel silenzio alto che accompagnava quel nostro lentissimo sognare balzarono alcuni colpi terribilmente spiegati. Battevano alla porta. ↑   

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